Mentre leggevo Eravamo soli, di Fulvio Di Sigismondo, mi sembrava di vedere le mani della vita, o del caso, che tenevano fra le dita fili di diversi colori. Come quando si intrecciano ciocche di capelli per radunarli in una treccia, portavano a turno in primo piano tre diverse solitudini: quella di Luca, adolescente sregolato per mancanza di saldi parametri di riferimento, della sua ragazza Margherita inserita in una comunità dove prova a cercare la forza per una vita normale, con lui, con Luca. E di Antonio, vedovo, anziano, operaio e partigiano: la vita segnata dalle atrocità della guerra, la dolcezza dell'amore per la sua Irma, il debole per le pesche noci, frutto proibito a causa del diabete.
I ricordi di Antonio, i sogni e le sfide di Margherita, la ribellione e la sfida al destino di Luca si sfiorano e si sovrappongono nella treccia fino a quando le mani della vita o del caso decidono di stringere l'elastico, in un supermercato di un quartiere popolare di Genova in cui si vive soli, eppur vicini, senza incontrarsi. Antonio entra per un poco di spesa mentre Luca arriva per rubare alcolici con l'amico “Pezzo”. A questo punto si chiude la treccia e si apre il ventaglio delle possibilità.
Accade più di qualcosa: nei gesti più banali, nelle violenze subite, nella desolazione di realtà giovanili nascoste dalla maschera dell'arroganza si consumano tragedie che esplodono e non è solo romanzo, che ho trovato bellissimo.
Una lettura coinvolgente, direi avvolgente, che sovrappone il suono e il senso delle canzoni partigiane alle parole dei rapper più noti. Dichiaro il mio amore incondizionato per Antonio, personaggio dolcissimo (che ho sentito affine anche per quel portafogli gonfio di ricordi) e scrigno di valori; perduti?
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