Writer Officina - Scrittori Ribelli
Recensione di

Andrea Bassato
Gli Accordi Spezzati
Autore: Roberto Maggi
 

Nuova fatica letteraria per Roberto Maggi, scrittore ormai consolidato e giunto alla sua quarta prova con questo “Gli accordi spezzati”, ed. Bastogi, fresco di stampa.
Non è un'opera di immediata o facile lettura; c'è bisogno di qualche pagina per entrare nello spirito che lo anima e nel linguaggio con cui è costruita. Non ci sono appigli a tutto tondo, in termini di vicenda e personaggi, cui aggrapparsi subito come riferimenti. Ma gradualmente le cose vanno mettendosi a fuoco, pur restando una intenzionale ambiguità che conferisce alla narrazione plurimi significati e piani di lettura e in cui i personaggi sono contemporaneamente se stessi e molteplici versioni o emanazioni di se stessi. L'idea di fondo e l'impianto che sorreggono questo atipico romanzo sono interessanti. Il protagonista è un personaggio moderno, con i tormenti della contemporaneità, in fuga da tutto, non si sa bene fino in fondo per quali precise motivazioni. Tra le righe (ed è positivo che queste motivazioni, in questo caso specifico, restino vaghe) sembra di cogliere che la causa scatenante sia una delusione sentimentale, benché più dovuta ad un languore da stanchezza che da una rottura traumatica a tinte fosche da eroe romantico, foscoliano. O forse il musicista inquieto ha dovuto o voluto scegliere il suo talento, perdendo la sua amata. La ritroverà?
Intanto lei riemerge, qua e là, nei ricordi, nei pensieri, nei sogni, nelle visioni, nei ragionamenti. I due sembrano percorrere strade separate, sempre sul punto di riannodarsi, ma poi si scopre che i momenti di condivisione sono frammenti di scarti temporali del passato, o proiezioni di desideri futuri, di speranze vane, di illusioni e delusioni.
Par di capire che le montagne siano il luogo del viaggio intrapreso alla ricerca di se stessi, forse un luogo comune del passato vissuto insieme, una salita in solitaria che è anche metaforica di un raccoglimento interiore in spazi silenziosi, che favoriscono il ripiegamento, la riflessione, l'esame di coscienza, il tratteggio dei bilanci. Sono luoghi di ascetica essenzialità, in cui il tempo sembra cristallizzarsi, favorendo il soliloquio interiore, un ritorno agli elementi primari, sganciati dalle futilità del contingente, dagli impegni tutti pratici e grigi del quotidiano.
A questo proposito, appare sensato ed appropriato l'adozione dello stile monologante, da flusso di coscienza, che prende la piega di una auto-analisi, quasi psicanalitica, dalla quale emerge tutto il vissuto e la visione del mondo del soggetto, la sua sensibilità, il suo particolare approccio alla realtà vera, e a quella immaginaria delle velleità, dei rimpianti per ciò che non è stato, per le speranze deluse, per la fantasia che si ostina a sopravvivere nonostante le battute d'arresto. Ed è una buona idea inframezzare le considerazioni del protagonista con la citazione di brani musicali e dei relativi testi, che servono a creare una colonna sonora in presa diretta, in accordo o a contrasto (secondo i casi) con lo stato d'animo o con la situazione evocata. Le fonti musicali sono prelevate da un repertorio inconsueto, da intenditori, ed è intrigante il tentativo di accordare il linguaggio della narrazione con quello dei brani musicali citati, con rimandi e rinvii, anche velati o indiretti, come se uno fosse l'eco dell'altro, vicendevolmente.
Il titolo assume così la doppia valenza dei rapporti/relazioni interrotte e della frammentazione degli interventi musicali che contrappuntano le vicende: un modo per significare che musica ed io narrante sono solidali nel tentativo disperato di ritessere le fila di un discorso vitale pieno di fratture, cesure, svolte e che paiono a volte insanabili e a volte foriere di possibili labili opportunità di cambiamento: permane al fondo un vago senso di speranza o miraggio non tanto nel ristabilimento di ciò che è perduto, ma nell'acquisizione di una nuova consapevolezza che sposti il punto di vista, la prospettiva per iniziare a vedere la realtà in modo meno problematizzato e più lineare, con una dose di sana e saggia accettazione dell'inevitabile.
A tratti l'io narrante, per non appesantire il racconto con la sua onnipresenza, tende a scomparire dietro a perifrasi impersonali: si descrivono gli effetti delle sue azioni sugli oggetti, sugli spazi in cui entra, sulle atmosfere che cambiano, piuttosto che le sue azioni dirette e i verbi si elidono, con predilezione per sostantivi e aggettivi o costruzioni prive di soggetto. E' una tecnica non nuova (viene alla mente, di primo acchito, il Nouveau Roman di Alain Robbe-Grillet, ad esempio ne “La gelosia”), ma che ha una sua efficacia in contesti come questo, dove domina il rimuginio interiore, la riflessione profonda, la discesa nella psiche: è una cifra stilistica apprezzabile e che funziona bene per alleggerire il peso del carico interiore e il rischio di un clima cervellotico, arzigogolato e macchinoso.
E' interessante anche un altro aspetto, che vede i personaggi (lui e lei) inconsapevolmente in sintonia con gli elementi naturali che li circondano, quasi una immedesimazione, o assimilazione, per cui certe loro vibrazioni d'animo, il modo di muoversi, il loro respiro, le azioni che compiono sembrano quasi quelle di elementi del paesaggio, quasi vegetali che si allungano nello spazio, si protendono verso riverberi ed echi dell'ambiente. Sanno cioè, nel loro io monologante, farsi puro pensiero, diventare liquidi o eterei, incorporei, senza peso che non sia quello dei prodotti della mente.
Se dovessi individuare un punto di debolezza, direi che questo risiede talvolta in un eccesso di aggettivazione, quasi questa ossessivamente dovesse per forza accompagnare ogni sostantivo, e costituire con esso necessariamente un sintagma obbligato, come se le cose, nei loro semplici nomi, non potessero stare da sole e presentarsi anche nella loro nudità. In questo il rischio di dar vita a cliché figurativi e linguistici diventa alto: a tratti hanno il sapore di “frasi fatte”, per quanto eleganti, un po' da manuale, che alla lunga possono diventare un gioco prevedibile, che perde sempre più forza, rallentando il ritmo. Non saprei se questa sia una scelta intenzionale, ma anche in tal caso essa dovrebbe essere dosata con maggiore stringatezza e misura: manca ad ampi tratti quella secchezza ed incisività di taglio che renderebbe più aforistiche ed efficaci certe frasi e che permetterebbe alla tensione narrativa di tenersi costante fino alla fine, dove invece si giunge un tantino affaticati e con un senso di “sazietà” di vocaboli.
La scrittura, in questo, nel descrivere cioè una qualsivoglia realtà, presenta varie possibilità di scelta, in forza della mediazione delle parole, che possono essere ricche o povere, esserci o non esserci. Mentre le immagini fotografiche o cinematografiche hanno una loro immediata evidenza che vincola in canali stretti l'immaginazione dello spettatore, la indirizza in forza della sua direzionalità spiccia, la scrittura può scegliere. Se dice semplicemente “albero” noi possiamo immaginarlo in mille modi, fogge, specie diverse. Una foto di un albero invece ci dà già una rappresentazione più precisa, ma più ristretta, specifica che lo presenta in quel particolare modo, escludendo contemporaneamente tutti gli altri.
Forse avrebbe giovato lasciare più margine alle facoltà immaginative del lettore, senza guidarlo troppo in dettaglio nella ricostruzione mentale della realtà raccontata, come si volesse vincolarlo alla visione dell'autore. In contesti come questo è più affascinate un po' di ambiguità di visione, con le prospettive di scrittore e lettore che viaggiano in autonomia, integrandosi da sole, senza essere eteroguidate.
In questo senso, la scrittura appare a tratti sin troppo “densa”, farcita. E' un piatto ricco, molto speziato, ma che corre il rischio, per quanto prelibati siano gli ingredienti, di generare alla lunga un po' di saturazione e di risultare non sempre di fluida digestione. Una maggiore stringatezza potrebbe creare un po' più di mistero, di distacco e di distanza che induca nel lettore, anche per reazione, una maggiore curiosità, stimolando in lui una propensione ad integrare o indagare, con accresciuta partecipazione ed immedesimazione, le cose non dette o lasciate sullo sfondo o appena accennate.
Per contro, sul piano narrativo stretto, degli accadimenti e dell'azione, si avverte il bisogno, di tanto in tanto, di una maggiore chiarezza, di qualche raccordo esplicativo che aiuti il lettore a capire bene cosa stia succedendo e a chi, per non perdere le fila degli eventi e per evitare che questo andamento rapsodico non perda definizione di contorno, diventando fumoso e vago.
Ciò detto, va sottolineato che l'architettura generale del romanzo è ben congegnata, con elementi di originalità e personalità e non priva di un apprezzabile voglia di osare, di sperimentate con coraggio, al di fuori del recinto rassicurante di una prosa standard. Al lettore è richiesto un certo impegno, ma è un impegno che può premiare: chi legge ha una percezione diversa da quella di chi scrive. L'autore ha già tutto chiaro nella sua mente, mentre il lettore deve, come in questo caso, raccogliere gli indizi per ricomporre il mosaico. Camminare sul confine tra libertà di immaginazione e forza di attrazione (che deve tradursi in qualcosa che sia avvincente, senza senso di fatica o pesantezza), è un delicato equilibrio, un esercizio in cui trovare le percentuali giuste per tutti gli ingredienti non è affatto semplice. Roberto Maggi si avvicina di molto a questo bersaglio, e lo fa con idee stimolanti, che danno una scossa alla pigrizia e alla routine e invitano piacevolmente a scavare sotto la superficie.

"Gli Accordi Spezzati"
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