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Non voglio riassumere, neppure per sommi capi, la trama di La prigione delle favole sole, romanzo di Carmen Trigiante, per la quale rimando alla quarta di copertina dove si anticipa il possibile, perché non voglio svelare nulla di più. Ci pensa, abile, l'autrice a guidare per mano il lettore sulla strada dell'intuizione, lasciandolo sospeso il tempo necessario per chiedersi quale direzione prenderà la vicenda, una delle possibili intraviste oppure uno sviluppo imprevedibile. E li troverà entrambi. Preferisco soffermarmi su altro, e c'è tanto altro.
La costruzione della vicenda mi è apparsa come una sorta di piovra che allunga tentacoli ovunque e lancia inchiostro nero per nascondersi e proteggere la testa pensante, fino alla resa finale. La scrittura aderisce, nel ritmo e nei lemmi scelti, alle situazioni: cambia con il loro susseguirsi, calza a pennello su ogni personaggio e ne accompagna l'analisi psicologica. Immagini, metafore, similitudini sono dense e pastose come i colori sotto la luce della Puglia, dove il romanzo è ambientato, una luce che è difficile vedere altrove e dona nitidezze quasi feroci.
Tormentate, sofferenti, indomite sono le figure femminili protagoniste, animate soprattutto da un insopprimibile senso della giustizia per il quale sono disposte a tutto. Gli uomini sono la loro adeguata controparte, l'altra parte, e sono delineati con tutta la gamma dei coinvolgimenti possibili nelle relazioni che si stringono con loro. Ognuno possiede una caratteristica capace di conquistare il lettore. Maya mi ha coinvolto con la fragilità; Selvaggia con la schiettezza della sua scrittura, che la rappresenta; Viola con la capacità di reagire; Claudio con la simpatia e Andrea con il suo affascinante dolore. La presenza della filosofia, rilevante in tutto il romanzo, è una sorta di narratore focalizzante che aiuta a non perdere il senso degli accadimenti.
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