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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Autore: Arcangelo Conzo
Titolo: L'armonia del pazzo
Genere Romanzo
Lettori 3508 39 63
L'armonia del pazzo
S'aprì la finestra al primo piano del palazzo baronale. La luce dei lumi a petrolio inondò il buio della strada. Quella sera il freddo imbottigliava i corpi nei pastrani.
“È nato!”
Il grido di gioia, di voce femminile, sferzò nell'aria gelida. La terra desolata del Mezzogiorno ebbe un sussulto simile ad una frustata e si sottomise al nascituro. Il primogenito del signorot-to locale aveva aperto gli occhi alle otto di sera, di un giorno di dicembre del '31, nel IX anno dell'era Fascista e sotto il ponti-ficato di Pio XI.
Era nato un maschio e la discendenza era salva. Gli fu dato il nome Pietro, come il nonno.
Nella modesta abitazione, di fronte al palazzo, il lieto evento era già avvenuto da una settimana: il 7.
Era nato un altro maschio e le sue braccia si sommavano a quelle dei fratelli nati prima. Le braccia, per un tacito compro-messo, erano destinate al lavoro e la vita sarebbe servita come carne da macello a sfamare i desideri di gloria dei gerarchi e dei simpatizzanti illusi.
I rispettivi nascituri si insediavano di diritto nelle famiglie di appartenenza. Chi era nato la settimana prima aveva come cor-redo famigliare: padre, madre, due fratelli e tre sorelle. Il poco latte faceva reclamare l'attaccamento alla vita.
Chi nacque dopo aveva una culla nuova, un padre ricco, una nutrice e una madre francese.
Il primo nato aveva un viso tondo, capelli folti biondi e una bocca larga, che atteggiava ora a smorfia di pianto, ora a riso so-lare e splendente. La fatica in casa si sopportava, come si sopporta una malattia:
“Cussì eti!”
(Così è!)
Diceva Resa al marito tornato fradicio dal lavoro nei campi. “Cussì eti!” Il destino aveva loro riservata una vita di miseria contenuta. Al destino Resa ci credeva e credeva nella dignità umana.
“Misìri sì, ma cu dignità!”
(Miseri sì, ma con dignità!)
Resa insegnava ai figli la dignità: se c'era poco bastava per tutti, se c'era tanto una parte si conservava per i periodi di ma-gra. “Cussì eti!” Le giornate trascorrevano senza monotonia: c'era da fare il bucato, prendere l'acqua al pozzo, cucinare e la-vorare i campi. Tutti rispettavano il compromesso non scritto. Quelle due braccia, nate da poco, erano un bene per la famiglia. Avevano portato nella casa di Resa gioia e sorrisi. I figli, a tur-no, andavano alla culla del nascituro: “Ninnì, ninnì!” e Ninnì rideva con quella sua bocca sdentata e larga. Poi, stanco, si gi-rava da un lato e si addormentava con gli angeli. Tornava in quel suo mondo di sogni, di luce e di paradisiaca tranquillità. Ninnì nel sonno rideva.
“Stè riti cu l'angili!”
(Ride con gli angeli!)
Diceva Resa agli altri figli. E senza interrompere quel dolce sonno, in punta di piedi, i bambini battevano in ritirata. Ninnì dormiva e cresceva tra sorrisi e pianti. In anticipo, nessuno glie-lo aveva ancora detto, capì che la vita si sarebbe svolta in mez-zo. Le fasi lunari si srotolarono perpetue e la faccia tonda di Ninnì diveniva sempre più magra e allungata. Gli occhi assu-mevano il colore della terra e guizzavano mobilissimi sopra tut-to ciò che era colore e fantasia.
*
C'erano le stelle quella sera. Era agosto e il caldo afoso del giorno lasciò il posto al fresco della cantina, dove la famiglia si era radunata. C'era il coprifuoco. Resa e suo marito Arcangelo l'avevano scelta come rifugio, un posto a loro familiare, così che il trauma delle bombe non intaccasse ulteriormente il già provato spirito. In un frangente, sottovoce, Resa disse al mari-to Arcangelo:
“Ci murimu, murimu a casa nostra e no mittimu ncroci a ni-sciunu.” (Se moriamo, moriamo a casa nostra e non disturbia-mo nessuno.)
Arcangelo masticò un fico secco e non rispose.
Nessuno parlò. Ognuno per impiegare le ore d'attesa si adoperava a fare qualcosa. Paradossalmente, Resa, si era porta-ta dietro i ferri da lana e sferruzzava per confezionare delle cal-ze da notte, da un gomitolo di lana riciclata. Ninnì si affacciò dalla bocca della cantina e rimase estasiato alla visione delle stelle che pulsavano da sembrare tanti cuori sospesi in aria. Cadde una stella. Pensò che il firmamento fosse una distesa immensa di sogni e che da lì ognuno potesse attingere il suo e farne desiderio da realizzare. Ninnì pensava che un giorno, non lontano, il cielo avrebbe accolto il suo piccolo cuore e fatto pulsare come quei piccoli punti luminosi. Sognava l'amore e la bellezza del mondo. Sognava la fine della guerra. Sognava di andare spensierato per i campi a dipingere il creato, senza preoccuparsi di correre come lepre, schivando bombe e insulti alla dignità umana. Resa sferruzzava e contemplava il figlio e non immaginava per lui nessun futuro. Ninnì era un piccolo sognatore; prese un foglio sgualcito, un lapis e disegnò le stelle. Più le guardava e più restava estasiato da quella visione fiabe-sca. Arcangelo si avvicinò alla moglie e la interrogò a bassa vo-ce.
“Ma ce faci sempri cu quiru labbisi mmanu?”
(Cosa fa sempre con quelle matite in mano?)
“E ci ni sapi nienti!”
(Non lo so!)
“Ce na t'ha ssè ti quiru?”
(Cosa ne dovrà uscire da lui?)
“Spittamu notru picca, vitimu ci cambia.”
(Aspettiamo un altro po', vediamo se cambia).
“Mah!!!”
Arcangelo si rimise a sedere e masticò un altro fico secco. Resa sferruzzò e gli altri componenti della famiglia aspettarono la fine del coprifuoco per andarsene a letto.
D'improvviso una scia luminosa squarciò il cielo e Ninnì im-paurito corse dalla madre.
“Mamà, mamà c'eti quiru lampu?”
(Mamma, mamma cos'è quel lampo?)
“E' na stella ca cati!”
(È una stella che cade!)
“Quant'è bedda!”
(Quanto è bella!)
Seguì un boato e tutti impietrirono. Ninnì rimase al suo po-sto, calmo, senza mostrare nessuna paura. Si voltò verso la madre e disse:
“Li stelli quannu catunu fannu rumori?”
(Le stelle quando cadono fanno rumore?)
Nessuno rispose. Abbracciati si davano coraggio a vicenda. Ninnì si riaffacciò dalla bocca della cantina e pensò che un so-gno, prima di avverarsi, deve percorrere tutto il cielo e poi ca-dere con un fragoroso boato. Resa alzò la testa, guardò il figlio e tornò a lavorare la lana.
Le bombe prima o dopo avrebbero smesso di parlare con la loro voce baritonale, tombale e Ninnì si sarebbe capacitato.

2

L'auto slittava come fosse sulla neve.
Tornavo dall'aeroporto, ero stato a New Orleans per sor-birmi involontariamente tre giorni di studi, discussioni e argo-menti vari sulla causa e sull'effetto dell'inquinamento ambienta-le e acustico; ospite del professor Casimiro. Sentivo ancora nel-le orecchie il discorso fatto dal professor Casimiro, luminare italoamericano della Loyola University di New Orleans. Un di-scorso acceso e duro, corredato da una carrellata di video e diapositive che s'erano conficcati come schegge di vetro nei miei occhi. Immagini di una realtà contaminata dal menefre-ghismo mondiale. Le nazioni hanno adottato, a discapito dei malcapitati, un modello di vita celato nel modus vivendi di noi esseri viventi. Tutto appare normalità.
“Catastrophe ...”
Il professor Casimiro con soddisfazione stampata sul viso mise a tacere tutta l'assemblea.
“Imminent!!!”
“Cazzo! Che sono venuto a fare a New Orleans?”
Dissi. Un brivido mi colse di sorpresa e mi abbandonai sulla sedia.
“La catastrofe è imminente? ... La sento, l'avverto sulla mia pelle ... “
Seduto in prima fila, quel volto enigmatico mi ipnotizzò. Non riuscivo a staccare gli occhi dalla sua taciuta perversione che lo pervadeva. La sua statura risultò gigantesca, sebbene fosse alto non più di un metro e sessanta. Era la successione delle parole roboanti e delle pause a farlo apparire gigantesco e autoritario. Adottava il linguaggio – dei cretini – parlava a van-vera, ammaliava e intimoriva l'intera platea con i suoi occhi di drago sputa fuoco. Non importava quello che diceva, ma come lo diceva. Aveva mille espressioni, che cambiavano a seconda da dove lo si guardasse. Da un lato appariva serio e preoccupa-to, dal lato opposto viscido e materialista. Mentre lo fissavo dal mio angolo, mi accorsi che amoreggiava, in una delle tante pause, con l'interprete dei sordomuti, affianco a lui.
L'interprete conosceva le pause e il linguaggio dei segni più di qualsiasi essere umano. Proprio in una di quelle, con un ge-sto fugace, aggiustò il reggiseno, imbizzarrendo il relatore, che le inviò segnali criptati di copula. Lei si lasciò spogliare e i loro sguardi si penetrarono con voluttà. Il professor Casimiro, spronato si spinse oltre ipotizzando una strana teoria: quella del dietrofront, dell'uscire in tempo.
Insomma, per non trovarsi con una paternità non voluta, o meglio con un mondo altamente inquinato, fece l'esempio del coito interrotto. Il paragone risultò all'inizio poco appropriato. L'atmosfera seriosa, nel quale era caduta l'assemblea, si tramutò in goliardica e giocosa. L'interprete, eccitata, enfatizzò i gesti ai sordomuti presenti, tanto da sembrare un direttore d'orchestra nell'atto conclusivo di un pezzo sinfonico. Casimiro eccitato si perse nel rincorrere schemi ed esempi. Giunse a quello più idio-ta: spiegò che tutti saremmo dovuti ritornare alla masturbazio-ne, come unica soluzione per darsi piacere e non incorrere alla citata paternità, cioè la catastrofe.
Così, di botto, si sarebbe azzerato tutto. L'interprete si umettò le labbra e si ricompose. Aerei, chilometri di strade, al-berghi e valigie per sentire un discorso impregnato sulla lordura del mondo.
“Che schifo, professor Casimiro! Irresponsabili! Avete per-messo che il pianeta Terra si rovinasse irrimediabilmente ed ora cercate nuove soluzioni per ripulirlo. Professore lei è estraneo a questo sfacelo? Su chi ricadrà l'onta del peccato? Se continuerà a fare lo schifoso con l'interprete, che giovamento avremo noi?”
Mi alzai disgustato e fui tentato a fuggire e sparire da quegli idioti. Ma la partenza per l'America era stata motivata, soprat-tutto per trarne un profitto economico e rimasi al mio posto. Ero stato contattato direttamente dal professor Casimiro, per una tela di Chagall. Il luminare mi invitò alla conferenza a New Orleans e sorbii in silenzio le sue stronzate.
Premetto che ho studiato chimica farmaceutica. Pur di non ammuffire in un laboratorio scientifico, ho intrapreso la carriera di mercante d'arte per una nota Casa d'Asta internazionale. La mia professione mi garantisce alti guadagni.
Nel ricevimento, a conclusione del seminario, il professore mi presentò Megghy, l'interprete dei sordomuti e le malelingue me li indicarono subito come amanti. Le uniche note positive del viaggio furono la vendita del quadro e Megghy. Ero partito con la consapevolezza di starmene tre giorni rilassato, lontano dai problemi e me ne tornai depresso e sconsolato.
Quel lunedì dei primi di marzo l'auto scivolava sulla strada; distratto, apatico non davo importanza al paesaggio. Davanti a me scorrevano macchie gialle e bianche in mezzo a una distesa immensa di verde. Capii che si trattava di un prato e, in mezzo, si ergevano come spade: margherite gialle e bianche.
Marciavo e ammiravo il cielo azzurro che autorizzava le nu-vole di muoversi liberamente, assumendo molteplici forme e sfumati contorni. Tutto si incastrava con il resto della natura e con il mio indebolito umore color porpora.
“Se il cielo ancora ci sorride, è inopportuno parlare di cata-strofe. Sono le multinazionali che vogliono trarne vantaggi, producendo panico e terrore.
I luminari, ben retribuiti, si vendono ai loro sporchi gio-chi ... e sguazzano nel lusso.”
Mentre la mente era assorbita dai pensieri che incontravano il vuoto e lo riempivano di aspettative, il cellulare squillò. Ri-sposi dall'auricolare che pendeva dal mio orecchio.
“Sì, pronto!”
“Sei già sulla strada?”
Era mia moglie.
“Un'ora e arrivo.”
Risposi senza dare troppa importanza al respiro, che dall'altra parte si rilassava. Quando viaggio lei è in apprensione. La mia casa è l'aereo o l'auto.
Sto via tre giorni, un giorno o due per riposarmi e riparto. D'altronde il mio mestiere mi porta a stare via per riunioni, ce-ne di lavoro per parecchi giorni all'anno e lei è spesso sola. Noi due viviamo una vita disordinata che si aggomitola tra solitudi-ni e lontananze.
La voce di lei entrò dritta nelle orecchie e si confuse col rombo del motore che annaspava in fretta sulla strada rosolata dai raggi del sole. Avevo un'impellente necessità di calarmi nel-la vasca da bagno e purificarmi dalle tossine americane che mi avevano intasato i pori della pelle.
“Senti Marcello, nell'armadio della camera da letto di tuo padre, ho trovato un diario.”
Tutto muta e, come mutano le cellule contaminate dai virus, il mio umore mutò. Divenni di sale e la faccenda non mi incu-riosì. Mi pervase il disinteresse e m'assalì un senso di vuoto. Mia moglie la sentivo distante, più distante delle onde che uni-vano le nostre voci ai due capi del telefono. Eravamo lontani.
La sua voce ovattata, tombale, mi rabbrividì. Un dubbio percorse gli strati superficiali della mia corteccia celebrale: mi aveva chiamato realmente o era un'allucinazione sonora che si era impossessata del mio delirio di stanchezza? Non avevo as-sorbito il fuso orario ed ero fuso anch'io? Comunque risposi senza convinzione:
“Che tipo di diario?”
“Un diario!”
Rispose in maniera vaga, come se la scoperta fosse frutto non di una ricerca, ma di casualità.
Mi presero i ricordi e l'auto sbandò leggermente.
“Mio padre aveva un diario e quali segreti nascondeva?”
Rivissi il ricordo dell'ultimo istante che lo vidi in vita. Era ri-verso sopra il divano, inerme, attorniato da tanta gente venuta in suo soccorso. Nemmeno il 118, chiamato tempestivamente, col suo defibrillatore ci diede la speranza di rivederlo alzarsi e dirci che era tutto uno scherzo. Il suo cuore non aveva retto e io trovai il coraggio di chiudergli gli occhi per sempre. Mi guar-dava come se volesse che quel gesto lo facessi io. Gli ero stato sempre a fianco, a volte scalpitando perché mi toglieva dai gio-chi.
Perciò spettava a me di diritto: figlio maschio più grande, continuatore di stirpe.
“Niente ti danno!” Diceva. “Ogni cosa devi conquistartela con sacrificio e continuità.!”
Lo ripeteva come una tiritera lagnosa e io fuggivo. Mi rinta-navo nel mondo dei perché e mi sembrava assurdo e immoti-vato che lo dicesse in tono composto e serio. Il mondo per me era un pallone e gli amici; non c'era più altro, non ci sarebbe stato più altro.
Chiusi il sipario di quell'ultima rappresentazione. Non ci fu-rono applausi.
Ritornò nelle orecchie la voce di mia moglie Gabriella:
“E' un diario con la foderina di cartone rossa. Saranno all'incirca 500 pagine. Forse più, forse meno, non le ho conta-te”
“OK, ok! Mi racconterai il resto dopo. Devo badare alla strada.”
Chiusi la conversazione, infastidito da quello che la memoria aveva scavato e riportato alla luce. Il corpo lo si seppellisce, i ricordi sono indelebili, granitici e affrontano le intemperie emozionali. Ero in subbuglio e riattaccai in maniera brusca. Non vidi più la strada: strafottente non badai al limite massimo di velocità e sorpassai le altre auto, veloce come un bolide indi-rizzato allo schianto.
Una pattuglia della stradale rallentò la mia corsa. Poco di-stante c'era stato un incidente. M'informai, non c'erano né morti e né feriti. Un' auto era accartocciata in mezzo alla strada e un'altra era caduta in una scarpata. Maledetta fretta. Non mi capacitavo: la voce di Gabriella mi aveva scalfito l'anima e pro-vocato un fastidioso e indescrivibile stato di agitazione. Fermo nell'abitacolo, imprecai e la mandai al diavolo. Nel frattempo, i carri attrezzi si portarono via le carcasse delle auto e sgombera-rono le carreggiate. Ripartii. Davanti agli occhi si presentò Ga-briella col suo corpo da fotomodella, gli occhi verdi e penetran-ti e le labbra carnose e vogliose di baci.
Maledettamente non mi dava più brividi. Non subivo più il suo fascino e mi chiedevo cosa ci stessi a fare con quella don-na. Non la chiamavo più per nome o meglio adottai un vez-zeggiativo: Ella! Ecco, Gabriella divenne Ella e più avanti solo un pronome personale: “Lei”. Non la cercavo da nessuna par-te, nemmeno nel letto. Era distante anni luce dai miei pensieri, dai miei turbamenti, dai miei amplessi culturali e fisici, dal mio ascetismo laicospirituale.
Come faceva a non accorgersi della nostra distanza? Evitavo il suo sguardo, le sue parole, il contatto mediatico e corporale. Non ricordo più il motivo di questo distacco o forse non c'era nemmeno stato un motivo.
Mi fermai ad una piazzola di sosta. Scesi e feci pipì. La curio-sità si impossessò di me. Cosa conteneva quel diario e perché era nascosto nell'armadio? Quali segreti avrebbe svelato? Striz-zai gli occhi, la forte luce del sole marzolino mi era entrata di-retta e li sentivo pungermi. Ero ad un passo da casa, ma avevo necessità di fermarmi un poco. Reclinai il sedile, accesi l'autoradio, abbassai gli occhi e mi abbandonai, senza curarmi di chiudere la portiera.
“Interrompiamo le trasmissioni!”
Una voce aggraziata, uno speaker radiofonico mi fece sob-balzare. Alzai la testa, la girai a destra e a sinistra; non c'era nes-suno oltre me in quella piazzola.
Le auto continuavano imperterrite a sfrecciare sulle corsie. Cos'era successo? Un imminente sbarco di Alieni o una delle tante catastrofi annunciate dal professor Casimiro? Era come se fossi entrato in un tunnel e non vedevo comparire la luce davanti a me.
“Attenzione! La notizia vi getterà nello sconforto.”
La voce continuava con la sua elegante dizione a torturarmi. Alzai il volume dell'autoradio e feci bene attenzione alle parole che, da lì a poco, mi avrebbero buttato realmente nello scon-forto.
“Il Papa ha rassegnato le dimissioni!”
Co ... cosa avevo sentito? Due pensieri si inseguirono nella mia mente frastornata. Quali sarebbero state le parole di mio padre? Era una notizia talmente assurda da non crederci. Nin-nì, nell'arco della sua vita terrena, aveva dipinto ad olio tutti i Papi che man mano, si erano succeduti: partendo da Pio XI a Benedetto XVI. Atteggiai la bocca in un sorriso liberatorio e mi sistemai meglio sul sedile. L'altro mio pensiero fu quello del-la bufala preparata ad oc da qualche buontempone, tipo Orson Welles, quando annunciò alla radio lo sbarco degli Alieni sulla terra.
“Perché rompete le palle con queste idiozie?”
Lo gridai nell'abitacolo e mi sovrapposi alla voce impostata dello speaker. Cambiai canale e l'incredibile si sommò alla realtà cruda e nuda.
“Il Papa ...” Confermava un'altra voce altrettanto imposta-ta. “... è gravemente malato! Non è in grado di sopportare il peso a lui affidato.”
“Da chi?” Urlai. “Chi gli ha affidato il peso?”
Ero stato educato alla religione cristiana e avevo ricevuto i sacramenti principali; mi mancava l'ultimo, ma non ci pensavo più di tanto.
“Morto un Papa se ne fa un altro.”
Lo sentivo dire allegramente da mio padre, quando veniva meno o falliva in un'impresa.
“Morto un Papa se ne fa un altro.” Era una delle tante falsi-tà storiche che piovvero sotto forma di lapilli incandescenti nella mia anima e non seppi dare nell'immediato una risposta plausibile o, per lo meno, degna d'essere creduta. Pur creden-do, non disdegno di diluire la mia personalissima Fede con la ragione e mantengo vivi i contatti con la Natura e gli uomini. La notizia impensabile, maledettamente vera, non l'accettai. No, non l'accettai! Se un uomo santo, il Papa, Padre Santo e capo indiscusso della cristianità, per volontà di Dio, si dimette per un motivo ics o ipsilon, allora chiedo che ad un peccatore come me sia data l'opportunità, di dimettersi dagli impegni presi davanti a Dio e agli uomini.
“Incapacità a sopportare il gravoso e schiacciante peso della vita moderna.”
Queste sarebbero state le motivazioni. E non parlo di divor-zio o separazione, ma di dimissioni. Sarei diventato marito emerito di una donna che non amavo più. Mi calmai. Ero scioccato, deluso e inzuppato fracido dalla notizia spiazzante. Spensi la radio e richiusi gli occhi. Nella testa rimbalzò una fra-se, che avevo sentito dire tante volte a mio padre:
“Cussì eti!”
Il sole marzolino mi carezzò. Non ricordo se mi addormen-tai o rimasi in dormiveglia e per non so quanto tempo fuggii dalla rotondità del mondo. Mi svegliai con la portiera dell'auto aperta e un piede poggiato sopra l'asfalto. La verità era proprio quella: fuggivo. Fuggivo da Lei. Ma la cosa penosa era che fug-givo da me stesso. Cercavo e trovavo altre donne che fuggiva-no ed erano disposte, vogliose, frustrate, ninfomane a dare non amore, ma sesso. Sesso per il gusto di evadere, di provare emo-zioni, di sentire sulla pelle l'adrenalina che le scuoteva dal tor-pore e in un punto invisibile, lontano ci incontravamo. Loro le donne e, parlo di alcune, io l'uomo eravamo corpi senza spiri-tualità, fatti di gesso. Il gioco a lungo andare mi buttò nello sconforto. Più scopavo e più capivo che non c'era piacere; provavo solo un immenso dolore dell'anima. Ero perso nei trogoli dei maiali. Non ho ricordi di nessuna in particolare. Solo una, ogni tanto, mi appare fumosa, ingiallita nella memoria. Una donna piccola, scura di carnagione, con due gambe mobi-lissime e sincronizzate nei movimenti sussultori. Seni e glutei piccoli e due capezzoli nodosi sotto un maglioncino color cilie-gia. La conobbi ad un rinfresco, nella villa di un antiquario, a Roma. Apparve timida e con il viso acceso in un rossore ver-miglio. In una delle camere da letto, di pomeriggio, scatenò gli ormoni come un plotone d'esecuzione. Li sparò a raffica sulla mia incredulità. Aprì le frontiere della libido e divenne una pan-tera nera con gli occhi iniettati di sangue. Ebbi paura e la lasciai nel letto agonizzante. La piccola donna dalla carnagione scura, intellettuale, professoressa di storia dell'arte si dava senza riser-ve per accrescere le sue conoscenze in fatto di arte. Poi ritor-nava dal marito, un uomo delle finanze, perverso e consenzien-te che la spingeva a intrattenere relazioni extra coniugali per avvalersi di sconti sull'acquisto di opere d'arte. Era un collezio-nista, sostenitore acceso di Matisse e Cezanne. Fui coglione e mi raggirarono.
Chiusi la portiera e riavviai l'auto. Procedetti a passo lento, non ero nelle condizioni di immettermi nel traffico, qualcosa mi bloccava. La notizia scioccante, l'ansia di ritornare a casa, nella fredda casa, mi stremò. Rasentavo il ciglio della strada e avanzavo a zig-zag, disturbato dal subbuglio emozionale. Di botto mi destai, recuperai le forze e pigiai sull'acceleratore.
“La vita prende delle pieghe sbagliate. Cussi eti!”
E vidi sfrecciare davanti al parabrezza: alberi, auto e caseggiati.
A tratti la corsa veniva rallentata da grosse buche sull'asfalto, quelle si sa, fanno parte del paesaggio. E via senza sosta, verso casa. L'auto filava sull'asfalto e gli oleandri piantati come sparti-traffico, al mio passaggio, muovevano i fiori e si inginocchiava-no ossequiosi.
La monotonia del grigio dell'asfalto si animò di colori e il brulicare dei fiori davanti ai miei occhi mi provocò una gioia sottile, simile a una scossa di pochissimi Volt che mi percorse dalla testa ai piedi e viceversa. Aprii il finestrino e riaccesi l'autoradio. Fu per caso che Luis Armstrong cantava: “Won-derful World.” La canzone arrivò dritta al cuore come una ca-rezza e allora cantai ad alta voce anch'io.
“What a Wonderful World!”
La sensazione di gioia durò poco. Tutti quei fiori e il loro olezzo pungente e sgradevole fecero crollare il mio entusiasmo. Sembrava stessi percorrendo il viale desolato di un cimitero. Per un attimo mi venne il desiderio di cambiare senso di mar-cia, di ritornare all'aeroporto e prendere un aereo qualsiasi e sparire. Un colpo di spugna e avrei cancellato per sempre ogni mia traccia. Chi mi aspettava a casa una donna o un fantasma? Con quale delle due avrei verosimilmente dialogato? La repul-sione verso Lei aveva una logica. L'avevo amata come si ama un pezzo del nostro corpo e l'avevo odiata come si odia un nemico acerrimo. Non mi ero risparmiato. Il desiderio di sape-re, di leggere il diario mi riportò con i piedi per terra. Ero curio-so di scoprire, fra le righe, quale messaggio cifrato mi aveva in-viato Ninnì. In quel tratto la strada era deserta, non c'erano veicoli. La fila degli oleandri e il loro odore di fiori marci l'avevo lasciata alle spalle. Finalmente un'aria pulita e odorosa entrò nell'abitacolo e purificò i miei pensieri di morte. Vivere. E per vivere c'erano due strade parallele che muovevano nella stessa direzione. Dovevo sceglierne una: quella che portava a smussare gli angoli di una vita spigolosa o quella della sotto-missione. Quale scegliere? Intanto la strada, quella vera che percorrevo, all'improvviso mi oppose un ostacolo vivente. Un grosso cane sonnolento, dal pelo maculato e dalla testa leonina e folta di color ocra, era accovacciato in mezzo alla corsia.
Sbandai, frenai bruscamente, l'auto fece due tre metri, sbi-lenca slittò sull'asfalto e si fermò, carezzando un alto e grosso eucalipto. Rimasi con le mani al volante. Attonito, guardai avanti. Mi ripresi e ringraziai Dio per essere rimasto illeso. Guardai nello specchietto retrovisore, il cane non si scompose, notò la mia faccia riflessa nel lunotto posteriore, addrizzò le orecchie, istintivamente la testa e si sollevò stirandosi.
Immobile, aveva l'aspetto di una Sfinge, guardiana dell'ignoto. Era cane o cagna? Fiutò l'aria, pensai che avesse percepito la mia paura, deviai lo sguardo e mi abbassai a spe-gnere la radio. Non mandai nessuna maledizione. Dopotutto era una bestia indifesa, sicuramente in fuga. Fuggiva dal suo destino di cane incatenato.
Anch'io fuggivo dal mio destino?
Gli pendeva dal collo un pezzo di corda attaccata al collare. Non conosceva cosa fosse la libertà e, di conseguenza, il peri-colo. Per questo sonnecchiava, incurante, in mezzo alla strada. Feci retromarcia, accostai l'auto, indossai il corpetto fosfore-scente arancione e scesi facendo bene attenzione alle auto che in andatura sostenuta rasentavano la mia. Il cane scodinzolò, l'accarezzai, uscì fuori la lingua e mi fece le feste.
“Da quanto tempo sei qui?”
Gli dissi. Si accucciò e digrignò. Le mie cure lo resero felice e abbaiò.
“Non posso portarti con me!”
Il cane mi guardò, lessi nei suoi occhi dolci la crudeltà degli uomini; le piaghe sulla spalla supponevano colpi di bastoni dati senza misura. Presi il cellulare e feci il primo numero che mi venne in mente: il 118. Aspettai seduto sopra un sasso con le mani a tenere il mento e le mie idee confuse. Il cane si mise a fianco, sembravamo l'uno l'ombra dell'altro. Due corpi impal-pabili, immersi nel vuoto dell'esistenza.
“I pensieri incontrano il vuoto e lo riempiono di aspettati-ve,”
Annusò l'aria e mosse la testa verso il cielo.
“I cani ascoltano l'impercettibile e corrono ad annunciarlo agli scettici.”
Arcangelo Conzo
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