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Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Writer Officina
Autore: Francesco Fontana
Titolo: L'uomo senza pelle
Genere Poesia
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L'uomo senza pelle
L'uomo senza pelle vive
per arredare la casa dei fantasmi.

Nei sotterranei, nelle segrete.
Sotto l'epidermide urbana, sotto le cattedrali verticali.
Riempie le vene di materia effimera.
La sostanza ribolle senza sosta, come un formicaio impazzito.
Non conosce progressioni, digressioni: non esiste oggi, non esiste ieri.
Il magma parla al presente.

Il microscopio dice: sangue, ossigeno.
Il microscopio non vede: trachea attorcigliata,
sigarette sul marciapiede, epifanie,
implosioni, orgasmi impiastricciati.

L'uomo senza pelle esige
che il carapace non si sigilli mai.
Alle cicatrici neonate urla: ferme.
Ci conficca un dito, ci scava dentro, le accarezza.

Prega
perché dalla periferia al centro conservi memoria della trachea attorcigliata,
delle sigarette sul marciapiede, delle epifanie
e, delle implosioni, degli orgasmi impiastricciati.

Chiede ai muscoli, ai nervi, alle ossa di parlare per lui.
Che si presentino al mondo,
con il loro rumore di locomotiva.
Di tamburello.
Di uragano.

Pretende
che il freddo ghiacci,
che il caldo arda,
che il male trafigga,
che il piacere ubriachi.
Nella vertigine dell'infinito.

L'uomo senza pelle
a fine giornata
scende le scale, lascia il brusio in superfice, e fa la conta dei fantasmi.
Dei mostri. Dei prodigi.

2

Si dice, si sa
che il cuore sia in alto
a sinistra.

Questa geografia
determinata, rigida
non mi convince.

A me
esplode
dappertutto.

Ho cuori
- nel collo nei piedi
nella giugulare nelle mani
nelle gambe nelle tempie
da mia madre
nei miei gatti sotto al letto -
giganti.

Battono,
galoppano rimbombano,
in ogni centimetro
del corpo.

Ho cuori per tutto:
notte giorno angoscia euforia panico amore.

Se qualcuno volesse uccidermi
puntandomi una pistola
al cuore
non basterebbe:
servirebbe un esercito,
un plotone schierato
che perimetri tutta
la materia,

che possa trafiggere tutti
i miei cuori.

3

Morirei, se potessi,
per un istante
per svegliarmi poco dopo
e dire:
no, fermi tutti; era uno scherzo.
Morirei così
qualche minuto,
per percepire l'assenza,
la vertigine del nulla.
Morirei soprattutto
per vedere le vostre facce
e cercare tra la folla i volti
inzuppati di lacrime
e quelli fermi
muti
freddi.
Morirei così
poche ore
per sentire cosa direste,
per guardare il mondo
senza di me.

4

Parole non dette, sottratte all'atmosfera,
picchiano sui denti e imboccano la strada del ritorno.
Non il flusso espiratorio, ma quello inspiratorio è il loro vagone.
Una locomotiva – strabordante – per le viscere.

Ho un corpo – straripante –
sangue fibre atomi ossa
parole. Recluse, imprigionate, corsare,
domate.
Attorcigliano le budella, formano labirinti.

Se si gettasse, giù nel profondo, un amo
una cartina tornasole, riemergerebbe poi
carica o inzuppata
di grovigli, di inchiostro, di mulinelli,
di gomitoli lessicali.

Se mi scorticassi la pelle, scoprirei il prodigio:
fuori intonso
dentro maree.
Ossa che ballano, epidermide che trema; presagio di terremoto.

E' necessario:
liberare, estrarre,
restituire fiato all'atmosfera, sostanza alla carta.
Parole da dire, da dare,
che addobbino il cielo,
creino costellazioni, accarezzino, turbino,
sconquassino.

Ma che lascino liberi vasi sanguigni, fibre muscolari, cunicoli nervosi,
prima che si riuniscano in grumi
interni, invisibili, subdoli
pericolosi.

5

Il poeta, in fondo,
è questo.
Il suo grido
muto
risponde, sostanzialmente,
a due vocazioni:
rivendicazione
e rivalsa.

Il poeta è, quindi,
come il passero inascoltato
sul davanzale.
O, ancora peggio,
è come il bambino
che sei
in un Natale di fine anni novanta
seduto al tavolo dei grandi.
Le parole non dette,
gli aspetta non è il momento, quel bambino
li ha inghiottiti
e ora
li sputa sul foglio. Riprende
spazio
aria.

6

Liberate le parole
dalle gabbie
dei manuali,
dei copioni.
Distruggete le catene
che le intrappolano,
piatte,
sul foglio.
Non per comunicare,
non per santificare,
non per reiterare;
scrivetele
per bruciare.

7

Non credete voi
che sia arte esclusiva
quella della penna
solo perché siete immersi
in biblioteche straripanti
strabordanti manuali.
Non pensatelo,
nemmeno per un secondo,
che i detentori del diritto
alla parola
siete voi.
I crittogrammi
corrono veloci e indisciplinati;
sgorgano dalle mani
di un fanciullo vagabondo
inquieto
fino a imbrattarsi
sui muri dei sottopassaggi
metropolitani.
Dal sottosuolo della bile
fuoriescono anarchici
subbugli emotivi.
Fate in fretta ad afferrarci
la lingua e a tagliarla
prima che sia
troppo tardi
e le mani abbiano già compiuto
il miracolo della
creazione.

8

Non pensate
sia facile
sputare fuoco su pezzi di carta.
E' un'opera minuziosa
di intrusione nel profondo.
Raccogliere frammenti
di vita
sepolta
silenziosa
e trasformarli in versi
differenziandoli
dai residui
di caffè e sigarette
ingurgitati nei momenti
di immersione.

9

Quando te ne andrai
nell'eterno
prima di saltare
verso il basso
ricordati,
nell'istante prima
del balzo,
di baciare la terra
che ti ha cullato a lungo
ed è pronta a darti la buonanotte.
Ricordati anche
di guardare il cielo e dirgli:
aspettami, pochi secondi
e faremo l'amore
per sempre!
Guarda,
se puoi,
anche il mare
un'ultima volta
e diglelo
digli che hai capito cosa significa
essere onda
e incresparsi
e quietarsi.
Accarezza il fuoco
che hai passato una vita a studiarlo
invidiarlo
e alla fine
ti ha regalato
una scintilla.
Ricordati
soprattutto
di baciare tutti
– tutti! –:
chi è,
chi è stato,
chi ti ha nutrito,
chi ti ha affamato.
Devoto di un dio
istrionico,
blasfemo
mezzo selva e mezzo fauna
bussa alle porte dell'infinito
nudo.
Con il terriccio tra le dita,
con ancora del fiato
intrappolato tra i denti,
da sbuffare,
con qualche lacrima
ancora da spurgare,
con un fuocherello tra le mani
che illumini il percorso,
e delle pagine, in tasca,
piene di nomi.
Pronto
per ripartire
travestito da uragano.

10

Vivo
la nostaglia preventiva:
piango già la scomparsa
di quello che non ho.

Che comunque, avere,
non voglio. Verbo arrogante,
bulimico,
arraffone.

E' la natura che impone
di non avere,
di non trattenere.
Momenti, corpi, istanti
che basta un soffio di vento
e puff
volano via.

Come un passero
raccolgo briciole,
mi nutro di rimasugli.

Non ho, come il leone tronfio,
una carcassa infrattata da qualche parte,
pronta a saziarmi.

Le cose ferme, come le carcasse,
puzzano di morte.

Vivo per le briciole,
con le briciole
e con una lacrima
infuocata
in tasca,
pronta a benedire il vento che se le porterà via.

Ancora, e ancora.

11

Cuore,
inquilino imbizzarrito,
indisciplinato vagabondo.

Ti strappo dal petto,
ti regalo alla bufera.

Eccolo: tenetelo.
Che vaghi, corsaro,
di mano in mano.

Lasciateci sopra
le vostre impronte.

Non con garbo,
non con timore;
lasciatelo navigare.

Se cadrà, giù, nella polvere,
non raccoglietelo.

Se leviterà, su, nell'atmosfera,
non imbrigliatelo.

Cuore,
io ti voglio:
deformato
scorticato
impiastricciato
assolato
insubordinato
irriverente.

12

Non c'è salvezza, capito?

O meglio: non quella lì.
Quella della carne,
delle budella, dei peli.
Come Pereira, l'omaccione di Tabucchi:
fai fatica a immaginarla, la materia che si ricompone.
Ancora,
ancora con le sue imperfezioni,
con i suoi umori.

E se non c'è,
quella lì, cosa fai?
Fai come il carciofo di Neruda, quello dell'ode,
che va giù,
giù,
giù.
Cresce in basso, nasce dal terriccio.

Se sei cenere,
e cenere ritornerai.
Se sei neve,
e neve ritornerai.

Cosa
cosa sei preoccupato di mettere in salvo?
La tua ansia,
quella che sta in una fiala
adagiata nella tasca
e ogni tanto si rompe e inonda le gambe i piedi lo stomaco la fronte,
cosa vuole preservare cosa?
Quel corpo gigione
e traballante impastato chissà dove?

Ma no,
ma no.
Via Pessoa,
il suo Libro dell'Inquietudine,
via.

L'inquietudine è un'epifania a scadenza:
esiste per estinguersi.
E' una radiografia ruspante e sincera: ecco, questa è la vita.

Inseguila, ma prendine le distanze.

Ché sei cenere, ché sei neve.

Parti da qui.

13

La crudezza della materia.
Ovunque
ci sia un anfratto di acqua
va in scena annualmente
il teatro del vero:
corpi molli, duri,
goffi, robotici,
viscidi, plastici,
malati,
vecchi,
lividi,
madidi.
La vita si ribalta e un corpo può sorridere di un altro
e delle sue storture.
Nessun abito pronto a infondere soggezione.
Peccato
che nei tribunali e nelle scuole
si giri vestiti.
Dovremmo guardarci la carne
per camminare più leggeri
senza fastidiosi orpelli.
Francesco Fontana
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