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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Autore: Frédéric Serge Koguè
Titolo: Il male esiste e l'ho incontrato
Genere Narrativa
Lettori 3068 36 24
Il male esiste e l'ho incontrato
Alla scuola del prototipo del controesempio.

Occorre riconoscere che i fanatismi che inducono a distruggere gli altri hanno per protagonisti anche persone religiose.
Fratelli tutti, 46.

Il vicario parrocchiale se ne andò via. Rimasi io nella giungla. Presto mi resi conto che quel mondo non era il mio. D'altro canto il sacerdote con il quale ero chiamato a collaborare non mi poteva dare niente, assolutamente niente, se non l'esempio di quello che non può essere un sacerdote. Non c'è mica bisogno di decenni per conoscere realmente un uomo. Basterebbe guardare al suo modo di parlare e di vivere. E se quest'uomo è per caso un sacerdote basterebbe osservare anche la sua maniera di approcciarsi all'eucaristia e di celebrarla. La tentazione sarebbe quella di mettersi a fare l'elenco delle assurdità sacerdotali a cui andai incontro, ma
diventerebbe un grave errore, perché non le voglio rivivere e non ho neanche la capacità di ricordarmele tutte. Mi limiterò solo ad indicarne alcune, significative, per dare un'idea di dove fossi capitato. Anzi di dove il Padrone della messemi aveva fatto capitare. Mi voglio solo limitare ad indicare alcuni fatti che mi resero il contesto disgustoso fin da subito, una situazione che andava solo peggiorando fino alla fine dei tre anni:

Strane tipologie di battute.

Eravamo in parrocchia e la parrocchia per me rappresentava - rappresenta tuttora - per eccellenza il tempio di controllo del linguaggio e del parlare. Dimmi come parli e ti dirò chi tu sei! Il signor parroco era volutamente scorbutico ed innamorato di battute oscene e poco belle. La prima sua battuta che mi cascò addosso, in assoluto, fu quella del primo giorno, cioè il giorno stesso del mio arrivo. Dopo pranzo mentre si era a rigovernare14, mi disse: - Fede, stanotte non chiudere la porta perché verrò a dormire con te - - Verrai a dormire con me? Mi devo però organizzare tutta la roba in camera perché ho ancora tutto in giro – così aggirai la proposta e la battuta.
Dopo neanche una settimana ero saturo per lo schifo che mi veniva addosso. Mentalmente stavo crollando, perché avevo fatto presto a fare il pieno delle cose esecrabili che non avrei mai voluto sentir dire da qualsiasi persona. Figuriamoci ora che venivano dette a me, da un sacerdote! Comunicazione interpersonale seria, zero. Ogni giorno a tavola, come ovunque nella casa canonica, il sacerdote eccelleva nel proferire parolacce e battute oscene. Tutto era volgare. Era il suo stile. Anzi il volgare per lui non aveva limiti. Non apriva bocca senza che uscissero termini e concetti vomitevoli sulla vita, la religione, gli studi, i rapporti umani. Non conosceva
la grammatica del limite. Figuriamoci quella del rapporto con gli altri! Per lui si può dire tutto. Egli appunto diceva di tutto e di più! Che catastrofe! Non aveva mai imparato a mordere la lingua prima di parlare. Era lui l'unico uomo a mia conoscenza a sparare solo parole che feriscono.
Di tutti e di tutto diceva male. Posso confessare senza
dubbio di non averlo mai sentito sottolineare il minimo bene
compiuto da nessuno: tutti erano disonesti, tutti rubano,
tutti odiano, tutto il mondo è fatto di gente immorale, solo
lui ovviamente fu creato “a modo”, perfetto e senza bisogno
di conversione. E guai se glielo facevo notare. Odiava il confronto ed aveva in avversione il pensiero critico. Bisognava
dargli ragione. Questa è niente meno di una pazzia, in psicologia si chiama suggestione: “Chi sta seguendo una suggestione
avrà antipatia all'idea di confrontarsi con un pensiero critico, con
qualcuno che lo possa contraddire, e cercherà che gli dia ragione,
che non lo metta in discussione. E se costretto a rivelarsi, mostrerà
un atteggiamento arrogante, aggressivo, che tende a mettere a
tacere l'altro”.

Schernire per il gusto di farlo.

Un fatto che ricorreva spesso, dando noia a chi gli stava vicino, era il suo sottile e delizioso senso di umiliazione. Umiliava per il gusto di umiliare. Di fronte alla sofferenza altrui, o faceva la gatta di Masino16 o si divertiva ad umiliare chi soffriva. È abituato a fare così. E così va avanti perché in quella parte del mondo tutti si lamentano e criticano alle spalle – come anche in questo caso – ma nessuno si prende mai la buona responsabilità di metterci la faccia. Bisogna passare per buoni. In chiesa e all'infuori della chiesa. Soffrii molto di questo suo gusto di umiliare. Laddove tutti si fermavano a fare complimenti, egli trovava che non ce ne fosse bisogno. Di ogni cosa cercava e sottolineava solo il lato negativo. Questo modo di fare testimonia, sicuramente, un malessere presente in quelle persone che non riescono a rallegrarsi ed a gioire né per il bene proprio, né per quello altrui. È un tipo di personalità che nutre anche il bisogno di buttare tutto sullo scherzo per attirare l'attenzione a sé, poiché pensa che gli altri siano sempre a rubargli il palcoscenico. Si sentono appagati se distruggono quello che viene esaltato intorno a loro. La vita per loro non è una sana competizione, ma un continuo voler sopprimere l'altro. Bastava
che qualunque persona andasse dopo una celebrazione a riferirgli gioiosamente di essere stata colpita dalla precisione e dalla bellezza di una mia omelia, che lui non solo cercasse di spegnere l'entusiasmo del suo interlocutore, ma ciò mi valeva
qualche giorno di scomunica: non mi parlava e non rispondeva al mio saluto per un po' di tempo. Mi chiedevo fra me e me come mai fossi capitato in quella giungla e come mai dovessi sopportare cattiverie e capricci così accentuati! Ne piangevo come un disperato. Ribadisco: da quel parroco mai sentii dire del bene di nessuno. Di nessuno. Né di Dio, né dei suoi angeli, né del demonio, né del Papa, né del vescovo, né del sacerdote, suo predecessore, né dei sacerdoti suoi collaboratori, né del più ricco, né del più povero della parrocchia, né del povero fedele che pregava in chiesa, né di chi della preghiera se ne fregava. Ma che vita è questa! Mi fa pena solo a ripensarci. All'epoca tutto ciò mi faceva pensare spesso però all'episodio del vangelo, in cui il fariseo nel tempio ringrazia Dio di non essere
come gli altri uomini: ladri, ingiusti, adùlteri17. Solo questo
fariseo infatti era diverso, bravo, non ladro, giusto e fedele.
Un altro ricordo doloroso mi attraversa la mente:
Se uscivo a salutare amici, diceva:
“Quello lì va in giro a stare con i ricchi!”
Se andavo a visitare malati e poveri,
“Quello lì non ha niente da fare!”
Se rimanevo in casa a leggere o studiare
“Quello lì non esce mai di casa!”
Se andavo a giocare a calcetto o a nuotare
“Quello lì pensa solo al fisico!”
Se un giorno non ci andavo
“Quello lì non si sa mai cosa fa!”
Se andavo a visitare una città,
“Quello lì non fa mai un c...o ed è sempre in giro”
Se andavo a salutare un amico, un sacerdote o un parente
“Quello lì pensa che la canonica sia un albergo”
Se un giorno non andavo da nessuna parte
“Questi Africani non sanno niente della bellezza delle città!”
Il bello era che queste dichiarazioni o sciocchezze - non
so neanche come chiamarle - non le vomitava davanti a me,
ma in giro presso la gente che per affetto me le riportava,
spesso mortificata, sempre dispiaciuta. Queste cose facevano
e fanno tutt'oggi male prima di tutto per la loro falsità. Denotano poi una chiara volontà di nuocere con lo sparlare, volontà contorta di rovinare gratuitamente l'altro, il confratello
sacerdote che non ti aveva fatto niente di male. Per lui era
semplicemente naturale agire così. Era solo la faccia visibile
di un disagio interiore: “Chi passa tutta la vita a frenare, a respingere, a calpestare, non riesce a proporre alla vita altri che gesti
di negazione e di ripiegamento; l'iniziativa e la creatività come
l'amore, vengono solo da un'apertura interiore. Ecco la sorgente
di quella tristezza opaca e un po' ebete che troppo spesso vediamo
entrare e uscire dalle chiese e dai templi.”

Strano approccio al Sacro.

Dimmi come parli del Sacro e ti dirò che cristiano sei.
Dimmi poi come celebri la santissima eucaristia e ti dirò
che razza di sacerdote sei!
Il suo approccio del Sacro era quello della banalizzazione. Il Sacro in parrocchia soffriva di una noncuranza senza
nome. Per formazione ed educazione le mie celebrazioni eucaristiche duravano/durano mezz'ora quelle feriali ed un'oretta quelle domenicali o festive. Eppure al signor parroco non andava bene. Bisognava velocizzare, perché tanto la Parola di Dio è sempre la stessa cosi come del resto il rito della
celebrazione eucaristica. Ai funerali la gente chiacchierava
e non partecipava, oppure stava fuori a farsi i fatti propri se
non a fumare l'ennesima sigaretta della giornata; perciò secondo lui meglio non perderci tempo. La messa andava celebrata in fretta e furia. L'esempio mi veniva da lui. Appunto.
Un quarto d'ora/venti minuti per le messe feriali e funerali.
Circa trentacinque minuti la domenica e le festività. E via!
Povero Cristo! A Roma si direbbe fare le cose con la mano sinistra. Ossia fare le cose male, senza cura e senza amore.
Addirittura senza esserci. Non è una questione di presenza
fisica, ma di presenza totale che comincia da quella interiore.
Quante volte succede che ci viene chiesto: “Ma ci sei?” Eppure c'eravamo fisicamente. Ma non totalmente! Egli faceva
le cose sacrosante – messe, adorazione eucaristiche, liturgia
delle ore ecc. – molto velocemente e con la mano sinistra.
In una maniera assolutamente ammorbante. Che noia Gesù
Mio! Come sei ridotto! Povera eucaristia! Povere cose sante!
Povero Cristo! Io non riuscivo a conformarmi al suo approccio al sacro e non promettevo nessuno sforzo in materia. Ed
era la mia croce. Anche questo non mi veniva perdonato.
Non mi poteva essere perdonato.
Ogni tanto – anche di nascosto – scendevo a rifugiarmi
nella presenza del Santissimo Sacramento in cappella d'adorazione perpetua. O lui mi vedeva passando dalla chiesa,
o qualcun altro che mi aveva intravvisto glielo riportava; ed
anche questo diventava oggetto di battute e di presa in giro
fino a lanciare delle frecciatine tipo:
-All'adorazione ci vanno quelli mentalmente disturbati-
-Appunto- ribaltavo io -Appunto Gesù stesso affermò di essere
venuto non per i sani ma per i malati Una risposta del genere mi valeva, abbiamo già detto, qualche giorno di “scomunica”!
Una volta al mese veniva organizzata l'adorazione eucaristica comunitaria, un'ora di presenza di fronte al Santissimo
Sacramento esposto sull'altare. Il parroco si accontentava di
scaricare da Internet file e modelli di adorazione e li faceva
leggere tranquillamente ai presenti. Era di un noioso che non si poteva descrivere. Mese dopo mese sempre meno persone ci partecipavano. Neanche i suoi fedelissimi si facevano vedere a così sacri raduni. Delle volte ci si ritrovava in sei,
cinque, quattro o addirittura in tre. Era un deserto. E quando alcuni parrocchiani gli facevano sapere che l'adorazione era roba seria e la chiesa si riempiva al tempo del suo predecessore e del sacerdote che mi aveva preceduto come vicario, egli rispondeva che “quelli avevano disturbi mentali”.

Il ridere sfacciato della disgrazia altrui.

Non esiste al mondo nulla di più orribile del ridere della
disgrazia altrui. È la peggior delle disgrazie, quella di ridicolizzare la disgrazia altrui. Non c'entra niente con l'essere cristiani. Si tratta solo dell'essere umani, dell'essere cioè veramente uomini e donne. Il contrario è semplicemente disumano. Infra-umano. È assenza di umanità. È bestiale! Ecco! Perché sono le bestie che fanno in qual modo. Non si può pretendere di costruire una spiritualità vera laddove l'umanità cade a pezzi. Quindi chi non è umano non può dirsi
cristiano. Ciò che non è umano non è cristiano. Spaventoso
è davvero il fatto di non aver rispetto per il dolore dell'altro.
Non è solo mancanza di rispetto. È più profondo. Viene da
più lontano. Non è neanche odio. Si tratta di una via di mezzo fra indifferenza e desiderio di colpire atrocemente. L'ho vissuto sulla mia pelle. Quanto hanno pianto i miei occhi! E non solo io. Il metabolismo del mio corpo produce spesso calcoli nei
reni. Un giorno mi feci ricoverare in ospedale per un intervento chirurgico per calcolosi renale. Il punto era questo: una volta fatta l'operazione, e dopo che avevo smaltito l'effetto dell'anestesia, il chirurgo mi disse di aver sbagliato tutto, mi
spiegò di non essere riuscito a raggiungere il calcolo, per una questione di posizionamento all'interno del rene. In sala operatoria mi avevano lasciato poi, come di regola per quella tipologia di intervento, un piccolo strumento di
plastica nel rene, il pigtail19, da tenere per un paio di settimane. Ero molto dolorante: psicologicamente, per l'intervento non andato a buon fine, fisicamente per questo pigtail che faceva un dolore insopportabile ogni volta che dovevo
andare in bagno. Lo stimolo di andare in bagno provocava
il reflusso delle urine che a sua volta scatenava al livello del
rene destro, oggetto del recente intervento, una sofferenza
enorme. Urlavo letteralmente di dolore. Pensai di fare bene
confidandomene con il parroco, che era in archivio a preparare gli avvisi delle messe del fine settimana. Me ne pentii. La prima cosa che mi disse era di accettare di andare a vivere nella casa in cui risiedevano i sacerdoti vecchi e malati -
spesso terminali - della diocesi. Rifiutai in modo categorico
e energico con tutta la poca forza che mi restava. Lì per lì
fece finta di compatire, ma appena girai le spalle e mi trovai
dietro la porta fuori dal suo sguardo, lo sentii raccontare di
me al telefono, descrivendomi come “uno che faceva finta di
soffrire, urlando come se fosse torturato”. Ero combattuto fra
il desiderio di ritornare a ringraziarlo per quello che aveva
appena detto al telefono e la saggezza di lasciar perdere. Fu
saggio da parte mia non intervenire, visto che avrebbe chiamato i suoi amici della curia per raccontare di me altre barzellette che non avrei avuto neanche la possibilità di sentire/
smentire. Avrebbe avuto ragione ancora prima di parlare.
Così era il sistema. Così era il sistema. Così è il sistema! Nei
confronti poi di un “Nero”!
Un altro episodio riguardava una coppia di una certa età che non aveva avuto il dono dei figli. Nonostante ciò, sono
rimasti molto attaccati al Signore ed ai valori della fede cristiana cattolica. Lui organizzava pellegrinaggi ed accompagnava i gruppi in pellegrinaggio in particolare a San Giovanni Rotondo, devotissimo che era a San Padre Pio. Un
giorno a pranzo mentre ragionavo dell'organizzatore dei
pellegrinaggi e della moglie lodando il loro senso della preghiera, la loro dedizione e il loro amore per Dio e i suoi santi,
il parroco sparò un'affermazione agghiacciante:
-Pregano così tanto Padre Pio che non è riuscito a dare loro dei figli- lanciò.
Esterrefatto non sapevo come reagire. Avevo gli occhi pieni di lacrime per ciò che avevo appena sentito. Stetti zitto.
Mi alzai subito e venni via ricordandogli una cosa sacrosanta:
-Forse non hai mai sofferto in via tua. È dal banco di un pub
che ti hanno gettato per qualche anno in seminario per farti diventare prete. Quindi non sai nulla del dolore. Ecco perché ti permetti di pigliare in giro la sofferenza di quelli che combattono
contro il doloreDi uno da cui provenivano parole come quelle soprariportate io non mi aspettavo niente. Né un saluto - me lo
toglieva spessissimo, ogni volta che dormiva male - né un
gesto di bontà – non ne era capace - né un buon sentimento
– mi aveva abituato al contrario, né la minima attenzione. A
questo proposito mi capitò più di una volta – almeno tre – di
essere ricoverato per interventi di calcolosi renale. Mi facevo accompagnare sistematicamente da qualcun altro per non
dover subire commenti spiacevoli. Mi degnavo comunque e
sempre di avvisarlo solo per buona educazione e per la programmazione delle celebrazioni, visto che non avevo il dono
della bilocazione, non potevo essere in sala operatoria ed allo
stesso tempo in parrocchia. Ma giuro che mai mi mandò un messaggino per chiedere come stessi. Non gliene importava un cavolo. Rischiai anche di morire di dolore. Ma chi se ne fregava! Morto un sacerdote africano, se ne farà un altro!
Conobbi invece persone che digiunarono e fecero penitenza, mentre ero ricoverato affinché guarissi! Questo successe davvero e mi commosse tanto. Chi si comporta in questo modo ha un cuore grande, pieno di sensibilità umana e di
amore reale. Chi non si comporta in questo modo pensa che
niente accomuni gli uomini. Certo che si sbaglia di grosso!

“Qui il parroco sono io”
Un ritornello che cantava spesso era questo: “Qui il parroco sono io”. Lo cantava per un sì o per un no. Però non lo diceva mai quando si trattava di presiedere le celebrazioni eucaristiche, per non dover produrre omelie. Si asteneva anche di dirlo quando, i giorni feriali ed alla fine dei tempi forti di Avvento e Quaresima, si trattava di rendersi disponibili per il sacramento della riconciliazione. I fedeli venivano per
ore e giornate intere a prepararsi per le feste ormai vicine. Bisognava lavorare e “lavorare” da sacerdote. Qui non c'era bisogno di fare bella figura, ma di impegnarsi al servizio delle tantissime persone desiderose di chiedere e ricevere il
perdono e la misericordia di Dio Padre. Che stupore vedere quelle folle di donne e di uomini accorrere e ricorrere alla confessione come degli assetati verso un'oasi nel deserto! Era da brividi, nonostante fossimo in un paese in cui si sostiene
che il sacramento della penitenza era obsoleto. Qui non si trattava di fare il manager, ma il sacerdote. Parecchi avevano seriamente bisogno di fare un incontro, di depositare il peso che portavano sul cuore e venivano a volte anche da lontano
per sentirsi (ri)dire quelle parole in grado di rigenerare a vita
nuova: “(...) Ed io ti assolvo da tutti i tuoi peccati nel nome del
Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Va in pace”20. Ecco le
parole sublimi che la gente aveva bisogno di sentirsi dire!
Ecco la formula di assoluzione che risollevava quelle folle
bisognose di riconciliazione! Tornavano veramente a vivere
dopo una bella confessione. La cosa fu talmente vera che
delle volte persone che andavano a cercare il sacramento di
penitenza presso colui-che-ripeteva-di-essere-lui-il-parroco,
tornavano deluse ed arrabbiate. E raccontavano apertamente
a tutti i presenti il proprio rammarico: furono banalizzati i
loro peccati. Quello che dovevano confessare fu dichiarato
di poco conto. Non erano sciocchezze, ma vere situazioni di
non amore dichiarate sciocchezze. A qualcuno fu detto alla
confessione, prima ancora che aprisse bocca:
-Ma te alla tua età, che peccato puoi fare? Non ti preoccupare.
Vai! Tranquilla!-
Questi penitenti non soddisfatti dopo la confessione fatta
con il parroco, continuavano a manifestare il desiderio di confessarsi di nuovo. Da chi venivano? Verso chi accorrevano? Da e verso colui che non poteva prendersi gioco né di loro, né di Dio che agisce nei suoi sacramenti. Anche in queste occasioni, il mio stare a confessare a lungo, gli dava noia. In quei periodi di intense “attività sacramentali” era comunque e sempre lui il parroco. Però non lo cantava. E meno male! La manodopera c'era per andare a confessare al posto suo. Intelligenti pauca sufficiunt!
Ogni tanto faceva finta di affacciarsi, perché uno che la pensava come lui, cercava il
sacerdote “che non era di colore” per fare due chiacchere. Eh sì! Il sacerdote “che non era di colore”, come se ogni pelle di ogni uomo non avesse un colore!
Un giorno il telefono squillò all'ora di pranzo. Eravamo solo noi due. Andai io a rispondere. L'autore della chiamata
voleva soltanto fissare una celebrazione eucaristica in suffragio per un parente defunto. Lo pregai di attendere in linea
il tempo necessario per andare a prendermi un fogliolino su
cui scrivere, per poi riportare la data sull'agenda ad hoc in
sacrestia. Per correttezza, prima di allontanarmi avvisai del
motivo per cui mi assentavo qualche secondo. Mi replicò con
disdegno:
-Perché non mi chiama direttamente al cellulare, che sono il
parroco?-
Gli feci le mie scuse ed invece di andare a cercare il fogliolino, informai colui che era al telefono che dovevo passargli
il parroco. Cosa che feci e tornai a sedere.
Ricordo un altro fatto. Era il primo dell'anno. Mi toccava
la celebrazione delle ore 18. Alla comunione, ad un certo
punto, mi trovai davanti una bambina sui dieci anni, accompagnata da un settantenne che teneva la mano destra appoggiata sulla spalla di essa. Non ebbi il tempo di ragionare.
Presentai l'ostia consacrata alla bambina con la formula nota
a tutti, “Corpo di Cristo”, aspettandomi il saputo e risaputo
“Amen”. La ragazzina imbarazzatissima mi riguardava, bloccata a metà strada fra commozione e sorpresa. Le diedi una
carezza sulla spalla sinistra prima di disegnarle sulla fronte
il segno della croce. Solo dopo ciò, le chiesi:
-Hai già fatto la prima comunione? --No- Mi disse con la naturalezza e la spontaneità dei suoi
dieci anni.
Aveva occhi belli e continuava a sorridere. L'innocenza è
bella e non va corrotta. Approfittai della luce che vedevo nei
suoi occhi per osare un'ulteriore domanda:
-E perché sei venuta a ricevere la comunione oggi?- Aggiunsi.
-È stato il nonno a dirmi di venire a fare la comunione perché
oggi c'è la festa- confessò la bimba.
-È vero, oggi è festa- riconobbi prima di aggiungere -però il
Corpo di Cristo che si chiama anche comunione, si dà solo a quelli
che hanno già fatto la prima comunione. Quindi un giorno anche
tu farai la tua prima comunione e da lì in poi vedrai che la potrai
fare come il nonno. Ora vai a sedere al posto tuoL'innocenza che emanava quella bambina la spinse addirittura a ringraziarmi, talmente fummo entrati in simpatia
e confidenza:
-Grazie!- Mi disse andando via.
In quel primo dell'anno io mi rallegravo di essere riuscito
a parlare al cuore di una bambina quando, subito a fine messa, il nonno mi si piantò davanti in sacrestia. La bambina
rimase alla porta. Pensavo che il settantenne mi venisse a
fare i complimenti per quello che avevo appena spiegato a
sua nipote, insieme agli auguri per l'anno nuovo. Invece no!
Come un fulmine le sue parole si abbatterono su di me:
-Come mai lei non ha voluto dare la comunione a mia nipote?-
-Perché sua nipote mi ha detto che non aveva mai fatto la comunione- Così mi difesi.
-Non ha mai fatto la comunione, però la poteva fare oggi. Almeno una volta- Non omise poi di offendermi pesantemente:
-I sacerdoti come lei sono la vergogna della Chiesa. Vi lamentate
poi che i giovani ed i bambini non vengano in Chiesa. Vergognatevi! Vergognatevi! Coglione! Non si sa neanche da dove vengono
questi!-
Il film prosegue come da copione. Il nonno se ne andò
“traghettandosi” dietro la povera nipote. La gente che aveva
fatto ressa intorno, gli fece spazio per passare. Io non avevo
parole. Ero mortificato. Disperato. Nessuno però aprì bocca.
Neanche per dire come la pensava. Certi silenzi fanno male.
Più male delle parole. Il silenzio di fronte ad un'ingiustizia
clamorosa, diventa complicità. È ingiustizia maggiore. Bisogna osare dire la verità, costi quel che costi. Stare zitti di
fronte ad un male evidente, distrugge chi sta zitto, chi subisce il male e finisce con il distruggere l'umanità intera. Solo
nella verità il cuore umano sta bene. Il silenzio di fronte al
male scaturisce dal fatto che noi ci convinciamo che il male
tocca e può toccare solo l'altro, il diverso. Noi - pensiamo
spesso - siamo diversi e quindi forse immuni: “Se tocca a loro
(...), non toccherà a noi, perché noi siamo “diversi”. Errore planetario. Un giorno come nel Deuteronomio, ci toccherà rileggere il
passato e scoprire in questo colossale equivoco la ragione del nostro
fallimento”21. A questo riguardo mi viene in mente la celeberrima riflessione “First they came...” attribuita al pastore Martin Niemöller22:
First they came for the Jews
and I did not speak out
because I was not a Jew.
Then they came for the Communists
and I did not speak out
because I was not a Communist.
Then they came for the trade unionists
and I did not speak out
because I was not a trade unionist.
Then they came for me
and there was no one left
to speak out for me23.
Prima vennero per gli ebrei
e io non dissi nulla
perché non ero ebreo.
Poi vennero per i comunisti
e io non dissi nulla
perché non ero comunista.
Poi vennero per i sindacalisti
e io non dissi nulla
perché non ero sindacalista.
Poi vennero a prendere me.
E non era rimasto più nessuno
che potesse dire qualcosa

Il pastore Niemöller si riferiva ad un popolo abituato a
guardare dall'altra parte, a girarsi dall'altra parte proprio
quando c'era da alzare la voce contro l'orrore. Quanta attualità in questa descrizione! Solo a pensare a questa Italia in cui
vige la regola “Finché non mi tocca, che me ne frega”! Eppure
quella sera, quella gente era venuta a scambiare con me gli
auguri di buon anno. Ma visto l'accaduto, alcuni se andarono via senza spendere una parola, girandosi semplicemente dall'altra parte. Altri si guardavano attoniti e facevano:
“Mah!” Altri ancora rimasero, mi fecero gli auguri e mi diedero i loro regali. Ma nessuno dava cenno di reazione. Nessuna parola. Assolutamente niente! Mi erano finite le forze!
Mai mi apparve più chiara la logica del menefreghismo. Una
radiografia perfetta di buona parte di amici Italiani. Così
si fa da queste parti. Puoi essere massacrato in mezzo alla
piazza, nessuno dirà niente. Ma perché? Per timore? Non
lo so. Se fosse per timore, per timore di chi e di che cosa?
Non lo so o non mi è dato di sapere. So invece che se sei
forestiero, le cose si complicano parecchio per te. Perché sei
“signor nessuno”. Ho constatato anche che l'Italia purtroppo
è tinteggiata anche da questo.
So di certo che esiste un intimo legame fra lo stare zitti di
fronte al male e uno stare male generale: una società che non
sa ribellarsi al male, non può stare bene. L'uomo che non si
ribella al male, vive male. Ovvio! Non ce la fa e non ce la farà
sempre a dormire sereno. Non si tratta soltanto di non fare
il male, ma di non fare il bene. Perché non fare il male non
vuol dire automaticamente fare il bene. Poi il bene non fatto
non ti lascia dormire tranquillo, in pace. Il cuore umano è
creato per il bene e se non lo fa, non sta bene. Non può stare
bene. Sta bene solo chi sta nel bene! Ma in questo paese, le
cose non funzionano in questa direzione. In questa cultura
“è il silenzio ad offendere, più del razzismo. Basterebbe dire forte la verità”24. È incredibilmente impressionante il fatto che
in questa cultura nessuno osi mai dire pubblicamente nulla.
E se viene fatto, viene fatto eccezionalmente! Quindi molto
raramente!
Forse questa tendenza italiana a non esprimere ciò che si
pensa ha radici più profonde nella sua storia, nei momenti
storici in cui l'Italia doveva prendere una decisione, dire la
sua. Invece ha sempre preferito fare la gregaria o è rimasta
neutrale, esemplare come nella prima guerra mondiale. Ha
guardato cosa facevano gli altri. La neutralità individuale e
personale ha sicuramente qualcosa a che fare con la neutralità storica di tutta la nazione. Rimanere senza responsabilità,
senza colpe, senza iniziative, non sporcarsi le mani è più comodo. Bisogna saperlo per non vivere di beate illusioni.
Quella sera, in sacrestia i più coraggiosi allargavano le
braccia in segno di impotenza, mi regalarono anche un abbraccio. A dire il vero, tutto ciò mi scaldò ben poco. Chiesi fra me e me: ma per quale peccato stavo scontando una pena così grande? Ero abbattuto. Però senza disperare e senza comunque rinunciare alla mia letizia, al mio diritto alla gioia.
La letizia va ricercata anche contro i venti contrari. Bisogna imparare il culto della gioia e della letizia nonostante
tutto. Mi ricordavo benissimo la trovata di Paolo Rumiz sulla gioia, la felicità e la letizia:
La letizia è un dovere, prima che un diritto (...). L'uomo ha
l'obbligo di essere felice, perché solo così fa felici gli altri. È uno
dei massimi insegnamenti dell'ebraismo. La gioia va cercata anche quando hai tutto contro. Nei campi di sterminio i Chassidim
entrarono cantando con i loro rebbe nelle camere a gas. Se gli antisemiti lo sapessero, si guarderebbero dal perseguitare gli ebrei,
perché la persecuzione li rafforza all'infinito, facendo valere infinitamente questo culto della gioia.
Eppure non ce la facevo più. Avevo una sola voglia: farla
finita con una parrocchia in cui ogni mia azione – anche
bella – generava conseguenze disastrose. Non ero in grado lì
per lì di rendermi conto di quello che mi passava per la testa.
Stavo talmente male che presi la direzione della camera da
letto. Senza cenare. Non potevo avere fame. Mi si bloccò lo
stomaco in quel primo dell'anno.
Mi ritrovai a dover scendere alle ore 7 per la preghiera
delle lodi senza aver chiuso occhio. Intorno alle dieci passai
dall'archivio per fare un salutino al segretario. Con sorpresa
mi accorsi che c'era, a parlare con il parroco, il nonno della
sera precedente. Lamentava che il sacerdote che aveva celebrato la messa delle ore 18 del primo dell'anno fosse stato
maleducato nei suoi confronti e soprattutto nei confronti di
una sua nipote, ed egli ne voleva richiedere nome e cognome, per scrivere direttamente al vescovo ed al Papa. Il parroco
prese un foglio, scrisse su il mio nome e cognome preceduti
da don, glielo diede scandendo: “Qui sono io il parroco e dico
che comunque la comunione va data in ogni caso!”
Tutti e due si salutarono con una bella e lunga stretta di
mano. Il dolore di quella mattina fu molto più intenso di
quello della sera del maledetto primo gennaio. Domanda:
nella vita si può vivere così cervelloticamente mettendo costantemente il vicino in cattiva luce? Sicuramente nessuno è
felice agendo così. Nessuno. È sadismo allo stato puro e il
cuore umano non ci può stare bene.
Ricordo, infine, che una coppia mi chiese di celebrare il
battesimo della propria bambina. Di persona lo riferì al don
per poter poi decidere una data insieme alla coppia e conformemente al calendario della parrocchia. Il don mi rispose:
-Come mai lo chiedono a te? Dovrebbero chiederlo a me che
sono il parroco qua-.
-Allora parlaci tu che sei IL parroco- dissi per non stare a
fare chiacchiere inutili.
Dovetti mandare questi miei amici a fargli presente cosa
e chi volevano per il battesimo della figlia. Solo dopo tutto questo protocollo, potei celebrare il sacramento. La gioia
fu grande. Grandissima non solo in virtù del battesimo, ma
perché una coppia era riuscita ad ottenere il battesimo della
propria figlia, facendolo celebrare al sacerdote che desiderava
lo facesse.
Come ribadito a lungo, era suo solito affermare ch'era lui
il parroco. Il mio vescovo invece, qualche anno prima, mi
insegnava che un capo – a parte che di un capo la Chiesa di
Gesù Cristo non ha bisogno, ha bisogno di servitori, guarda
caso il Papa viene chiamato il Servitore dei servitori di Dio!
– che rivendica di essere capo è un disturbato. Per il semplice
motivo che anche la più banale intelligenza sa normalmente
riconoscere chi è il capo e chi non lo è. Senza che ci sia per
forza bisogno di ribadirlo. L'autorità è paragonabile ad un
conto in banca: più la usi, e meno ti avanza. La sua era arte,
l'arte di annullamento del prossimo. Dovevo forse diventare
come voleva lui per farlo contento e diventarne amico? Manco morto! Dovevo trasformarmi in leccapiedi per evitare di essere bistrattato? Scherziamo davvero! Manco morto! L'arte di annullamento del prossimo, la esercita per ammazzare l'autostima di chi gli sta accanto. E se non avete una forza endogena per rimanere voi stessi, persone così vi trainano dietro a sé come un rimorchio vuoto di sostanza.
Ci vuole una buona quantità di autostima, di coraggio, di volontà e soprattutto di preghiera per resistere e sperare di vincere: quella specie si sconfigge solo con la preghiera: quella specie di demone si scaccia solo con la preghiera e col
digiuno (Mt 17,21).
Carissimi, non lasciate nessuno dettarvi le regole di come dovete essere né di chi dovete essere. Neanche Dio ci impone delle regole da seguire. Dio ci propone di seguire la sua Parola. Dio si propone a noi. In quei tre anni d'inferno, mi
fu dato di capire un'altra grande verità: chi non si occupa delle cose di Dio, non si (pre)occuperà mai dell'uomo. Ad accantonare Dio si finisce col disprezzare l'uomo: “Il tentativo portato all'estremo, di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio, ci conduce sempre più sull'orlo dell'abisso, verso l'accantonamento totale dell'uomo”. Anche qua dico: intelligenti pauca!
Frédéric Serge Koguè
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