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Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Writer Officina
Autore: Caterina Infante
Titolo: Come il sale sulla pelle
Genere Narrativa
Lettori 3309 200 45
Come il sale sulla pelle
Un romanzo d'amore. Racconta l'amore perduto e mai dimenticato. L'amore tra Francesca e Adriano. Lei bella e capricciosa, lui un pescatore per vocazione. Un amore reso tormentato dal padre di lei, un noto chirurgo che non accetta la relazione della figlia con un umile pescatore, E Francesca, pur di accontentarlo, perché non sa vivere senza l'approvazione degli altri, sposa Marco, un neurochirurgo, il pupillo del padre. Ma non ha dimenticato Adriano.

Francesca

La chiesa era addobbata di peonie e rose inglesi, come il bouquet che stringevo tra le mani, su cui concentravo lo sguardo. - Tieni alta la testa - mi esortò mio padre.
La sua voce tratteneva ancora nervosismo. Proprio non gli era andata giù la mia decisione di arrivare in chiesa con una Fiat cinquecento usurata dagli anni e dalla salsedine. - Io su quella macchina non ci salgo - aveva apostrofato, lì davanti a tutti. Così, come per farmi un dispetto, se ne era uscito di casa senza aspettarmi. La parrucchiera stava dandomi l'ultima sistemata all'acconciatura. Poche centinaia di metri, da casa nostra fino in chiesa, che percorse da solo, impettito nel suo abito scuro, aspettando il mio arrivo in cima alle scale del sagrato, sperando che cambiassi idea e arrivassi in chiesa con la Lamborghini di famiglia.
Restai irremovibile: volevo quella macchina, forse per ripicca, o forse perché era l'unica cosa a non riguardare la mia famiglia. La macchina del mio amico Paolo, la stessa con cui andavamo al liceo e che spesso ci lasciava per strada a chiedere un passaggio. C'era dentro il ricordo dei pomeriggi pigri sul lungomare a guardare le mareggiate, delle prime confidenze sull'amore, del primo spinello. In quella macchina, nelle giornate fredde, aspettavo Adriano rientrare in porto, rubavo il primo suo sguardo, prima delle manovre d'attracco e delle incombenze di un peschereccio che rientra, e nell'attesa Paolo mi aiutava con le versioni di greco. C'era tutto un mondo lì, il mio.
Adesso, mio padre raccoglieva e dispensava sorrisi, senza accorgersi del mio tremore, scortandomi verso l'altare, verso Marco. Il neurochirurgo che piaceva a lui, che aveva scelto per me, l'uomo che, a detta di tutti, mi avrebbe resa felice.
Se gli avessi detto amo un altro uomo, ma a te non piace, perché è figlio di un pescatore e pescatore egli stesso, e contro di noi ti sei accanito, si sarebbe fermato per guardarmi negli occhi, e senza chiedermi nulla mi avrebbe preso la mano e saremmo tornati indietro, a passi veloci verso l'uscita. E allora sarei corsa al porto, proprio come nei film, tra gli sguardi smarriti degli ospiti, e la faccia sbiadita di mia madre, già terrorizzata dall'opinione della gente, e avrei cercato Adriano, l'uomo che amavo.
Ma non è andata così.
All'altare c'era Marco. Bello, nel suo vestito scuro, sembrava lo tenesse in piedi l'emozione. Attraversai la navata guardando solo lui: entrai in quell'emozione sperando sorreggesse anche me. A lui mi affidavo. Gli chiedevo di salvarmi da tutto e tutti: ti consegno la mia vita stropicciata, quello che di me resta dopo Adriano.
Lesse le promesse: - Io Marco accolgo te Francesca come mia sposa e prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di onorarti e amarti tutti i giorni della mia vita. - Ci scambiammo le fedi, la mia mano tremò appena nella sua, e sorridemmo al fotografo da marito e moglie.
Riso e confetti ci piovvero addosso all'uscita. Poi le foto, il ricevimento, il giro tra i tavoli a raccogliere auguri.
- Non vedo l'ora di sfilarti questo vestito - mi bisbigliò all'orecchio, durante il taglio della torta, con l'urgenza del desiderio.

Marco

Era questa urgenza a farmi credere che il mio matrimonio sarebbe stato diverso. Diverso dai miei amici, che hanno consumato in fretta l'entusiasmo degli inizi; diverso dai miei genitori, che forse l'idillio matrimoniale non l'hanno mai vissuto.
Cos'è successo dopo? Quando abbiamo trasformato l'urgenza in pacata attesa? Quando abbiamo smesso di guardarci come quel giorno, sotto il lancio di riso e confetti?
All'inizio non era così. Ma l'inizio è quasi sempre una promessa, una narrativa fiduciosa, un incanto di gesti e parole. La sentivo appagata. Ci cercavamo con passione. Quando ero fuori per un convegno ci telefonavamo la sera e restavamo a cinguettarci il nostro amore come due adolescenti. E quando tornavo facevamo l'amore appena chiusa la porta, scambiandoci a lungo il desiderio dei nostri corpi. Alla fine ci si tappava la bocca per non svegliare i vicini con le parole fatte urla dei nostri orgasmi.
Poi l'incanto si è spezzato.
La passione dell'inizio ha lasciato il posto agli affanni del quotidiano, ai rimpianti, ai silenzi. E allora si arrabbia, urla anche per banalità. I miei mille impegni, un figlio che non arriva, il mio disordine in giro.
Dipano il filo della memoria, cerco le colpe. È mia la colpa? D'accordo, ho poco tempo da dedicarle, preso come sono dall'ospedale, dal mio lavoro extra moenia, dallo studio per il concorso a primario, e di questo Francesca ne fa esplicita lamentela. Ma la mia professione richiede un impegno a cui non posso sottrarmi, dovrebbe saperlo: è figlia di un medico.
La ragione del suo malessere deve essere altrove. Lei è uno spirito irrequieto, sognatore, con le radici infisse in modo aleatorio nella terra, forse neppure lei sa cosa vuole. Io, per carattere e formazione culturale, sono portato a stare con i piedi ben piantati per terra. Eppure sento che non potrei amare nessun'altra donna come amo lei; ma c'è qualcosa tra noi, come una specie di sortilegio... siamo due pezzi di ferro calamitati che messi a contatto per i poli gemelli si respingono e non riusciamo... Ma poi lei mi ama veramente? Se mi amasse dovrebbe capirmi. Ed allora io che dico di amarla e non la capisco? Per capire una persona bisogna amarla, ha detto qualcuno; ma evidentemente per noi non vale. Non basta amarsi per capirsi.

Francesca

La verità è che faccio ancora i conti con tutto quello che mi porto dietro di Adriano, di noi: il profumo salmastro dei suoi capelli, il tepore della sabbia nelle notti d'agosto, quel suo vezzo di mordermi un dito quando camminavamo per strada, una sigaretta da fumare in due dopo fatto l'amore. E poi tutto il resto, tutto quello che siamo diventati insieme: sguardi, parole, gemiti, pelle che si riconosce e si cerca. Pezzi di nostalgia incastonati nel mio presente: sono quei pezzi, quella vita.
Dovrei cambiare pelle per dimenticare, oppure disporre di due vite: una per sbagliare, l'altra per rimediare.
Lo penso mentre mi allungo le ciglia con il rimmel e dallo specchio vedo mio marito fermo sull'uscio, già con lo sguardo impaziente. - Dai, Francesca... è tardi. - Ha caricato i bagagli in macchina e adesso mi reclama con più insistenza. - Un attimo... - rispondo.
- Lo conosco il tuo attimo - replica scettico. Sa che non sono mai puntuale.
Invece stavolta sono pronta.
Un po' meno per il viaggio che mi aspetta. Torno a Castellabate. Il mio paese, le mie radici, il mio passato. Sono quasi tre anni che non ci torno. Per un motivo o per un altro ho sempre rimandato. Ma mia madre è diventata più insistente nell'ultimo periodo: Il Natale si trascorre tutti insieme. Così, con la scusa delle feste, chiama a raccolta tutta la famiglia. Tira fuori il servizio buono, la tovaglia di lino tutta pizzi e merletti, i candelabri d'argento. Le piace. Le dà una gioia quasi infantile vedere la famiglia riunita intorno al tavolo apparecchiato a festa. Comincia una, due settimane d'anticipo: scelta del menù, da concordare, ma solo in base all'umore del momento, con mio padre; il vestito da indossare, uno nuovo, confezionato per l'occasione dal sarto di famiglia; in ultimo, la scelta degli addobbi floreali. Poi comincia a mettere in fila le domande: “Quando arrivate?” “Non lo so, dipende dagli impegni di Marco” Non vorrete arrivare il giorno di Natale?” “No, mamma, cercherò di arrivare prima.” “E non sbuffare, non fare come tuo solito, e vestiti bene.”
Vestiti bene, la chiosa di quasi tutte le sue frasi, mi rincorre da quand'ero bambina. E anche se ormai sono una donna adulta, moglie di un professionista, che mio padre definisce un uomo solido, respiro ancora le sue ansie materne e le sue paranoie borghesi. Così mi agghindo: tailleur grigio perla e tacchi alti, e pazienza se il viaggio verso Castellabate lo avrei preferito in jeans e sneakers. E recito la mia parte.
Già so che dovrò sorbirmi le solite domande, tutte intorno allo stesso argomento: la gravidanza che non arriva, che alla fine mi fanno sentire donna e moglie incapace. A cui, come non bastasse già solo questo a deprimermi, si aggiungerà il costante confronto con mia sorella Gemma.
Bisogna ammetterlo, con lei hanno avuto vita facile, è stata una figlia modello: brava a scuola, elegante, ha riempito d'orgoglio le parole di mio padre diventando anche lei medico, e per giunta ha sposato un gentiluomo, come ripete sempre mia madre quando parla di Stefano. Io, invece, l'opposto. Bella e capricciosa diceva mio padre. Per mia madre invece ero un maschiaccio, ancora adesso in verità lo dice, preferivo scarpe sportive, jeans sdruciti, maglioni troppo informi. Non ero allineata al suo gusto. Ero irrispettosa delle buone maniere, ritornavo a casa sempre in ritardo, mai agli orari che mio padre aveva stabilito, e per giunta avevo scelto studi che a lui non piacevano: Cosa devi farci con una laurea in filosofia? E poi Adriano... l'amore tormentato della mia giovinezza.
Pronuncio il suo nome e mastico ancora le liti di quegli anni.

Marco

Il broncio che continua a mantenere da quando siamo arrivati, mi lascia perplesso. Per cosa poi? Per una banale osservazione della madre.
- Ma cos'hai fatto ai capelli? - ha commentato mia suocera, appena l'ha vista, sorvolando sui saluti. In verità, per un attimo ho pensato che la domanda fosse rivolta a me, invece guardava alle mie spalle. Ce l'aveva con la figlia.
Ho pensato di soccorrerla, così ho detto a mia suocera: - Le ho chiesto io di tagliarli così, con la frangetta sembra una ragazzina non trovi Elsa? - La stessa cosa ha fatto anche il padre, accodandosi a me, e sostenendo: - Non darle retta, stai benissimo, ha ragione Marco. -
- Alla fine si finisce sempre per dar ragione a te - mi ha detto a fil di voce mia moglie.
Proprio non si prende con la sua famiglia.
È convinta, lo dice da sempre, che il padre ha una predilezione per me. - Gli si accendono gli occhi quando parla di te. - Sì, sicuramente c'è stima, come può esserci tra due colleghi che esercitano la loro professione con dedizione, ma da qui ad esserne gelosa...
Ma lei è fatta così: estremizza ogni cosa.
L'ho vista rasserenarsi, quasi assentarsi, mentre giocava con le sue nipotine, Giulia e Vittoria, di otto e cinque anni, che la coinvolgono nei loro giochi. Se ne sta seduta sul pavimento ad animare una bambola a cui manca pure un braccio, ed è talmente presa che neanche si accorge che la sorella cerca la sua attenzione. - Ti devo chiedere un grandissimo piacere - torna a dirle Gemma, per la seconda volta.
Come referente di un'associazione ambientalista, deve tenere un discorso durante un convegno organizzato dall'Ente Parco del Cilento. Ma una fastidiosa raucedine le ha reso la voce gracchiante.
- Lo sai che parlare in pubblico non mi piace. -
Gemma persevera: - Dai, ti prego... non senti che voce che ho? -
- Non insistere... fai parlare Stefano - butta lì. Il cognato la guarda in tralice: anche lui non ama questo tipo di esposizioni.
- Su, Francesca, che vuoi che sia parlare davanti a gente che non conosci? - interviene la madre.
Alla fine cede. - Almeno fammi leggere ‘sto discorso... -
- Sì, sì, dopo, adesso mi devo occupare delle bambine. -

Invece, tra le chiacchiere intorno al tavolo, i giochi con le nipotine, dimentica di chiedere una copia del discorso. In realtà, ho l'impressione che abbia dimenticato proprio tutta la faccenda del convegno. Non ne abbiamo più parlato, anche perché, una volta in camera, è sprofondata sul letto e si è addormentata subito.

Se ne ricorda soltanto adesso, quando vede la sorella, tutta in ghingheri, entrare in camera. - Ma ancora non sei pronta? -
Caspita!
- Dai, Gemma... chiedi a qualcun altro, io proprio non me la sento. - Però adesso sembra sincera.
- Ricominci? -
- Ma non l'ho letto, metti che mi blocco per l'emozione... Che figura ti faccio fare? -
- Non hai di che bloccarti, il discorso è breve e semplice. Qualche descrizione sul Cilento: spiagge, mare cristallino... Nella parte finale ci sono dei riferimenti all'edilizia abusiva e alla mancanza di scrupolo di molti pescatori che stanno distruggendo il mare. -
La vedo sbiancare.

Francesca

Pescatori... una parola tra le tante che ha detto. La ripeto nella testa, la riassaporo, e subito prende la forma di Adriano: il suo viso, il suo orgoglio, la sua vita in mare. I nostri anni insieme.
- Dai, sbrigati. - Mia sorella non molla.
La guardo senza muovere parola.
- Ehi, dove sei con la testa? Vestiti che andiamo. -
Mi pento di aver accettato.

In macchina non dico una parola. Un'impercettibile inquietudine m'impedisce persino di leggere il discorso di mia sorella, così come mi ero ripromessa di fare.
Marco parcheggia, scendiamo dalla macchina e avanziamo, io un passo indietro, fino al castello dell'Abate.
Appena dentro, mia sorella mi presenta al Sindaco, lo informa della sostituzione ma non sembra che la cosa lo preoccupi. Invece io comincio ad agitarmi. Non c'è tempo per scambiare qualche battuta, deve aprire il dibattito, a cui segue un lungo intervento del Presidente del Parco del Cilento, con cui espone i principi e gli obiettivi che animano il Parco e la sua storia. Ne approfitto per scorrere velocemente il discorso che dovrò tenere a breve. - Dai, che andrà tutto bene... farai un figurone - mi incoraggia Marco.
Tocca a me. Salgo sul piccolo palco, mi avvicino al microfono, ringrazio il Presidente e improvviso: - Buonasera a tutti - saluto. - Il Cilento è una terra meravigliosa, che amo moltissimo, anche se la vita mi ha portata altrove, il mio cuore è qui, tra questi scenari incontaminati, tra queste spiagge dorate e mare cristallino. - Leggo il discorso: - Ma il Cilento è terra sconosciuta a molti italiani, sebbene sia una terra ricca di storia, arte e mitologia: da Velia a Paestum, passando per il nostro bellissimo paese baciato dal mare, possiamo vantare siti archeologici e bellezze ambientali di importanza e valore inestimabile. Non possiamo permettere che una terra come questa, contraddistinta da un tempo e un ritmo tutto suo, lento e nostalgico, che è una ricchezza in una società che corre veloce, venga violentata da un'edilizia senza scrupoli che sta rovinando le bellezze paesaggistiche di questo territorio e da una pesca che non sostiene l'ecosistema costiero. Per questo motivo, per salvaguardare le nostre bellissime coste, è necessario che le istituzioni, insieme con gli operatori del settore ittico, concentrino l'attenzione su una pesca sostenibile, anche attraverso l'applicazione di leggi più restrittive. L'uso di apparecchiature sempre più sofisticate, l'utilizzo di reti fittissime e la mancanza di scrupolo di qualche pescatore, sta distruggendo, lentamente, l'ecosistema e la microeconomia a favore solo di un pescato maggiormente richiesto dal mercato. L'antica sfida dell'uomo con il mare, suo eterno fratello da sempre, sembra ormai aver lasciato il posto al tecnicismo e alle leggi del mercato... -
Concludo il mio intervento tra applausi e fischi. Scendo dal palco, stringo la mano al Sindaco, torna a ringraziarmi, aggiunge qualcosa che per la confusione creatasi non comprendo, sorrido solo per coprire l'attimo di silenzio. Anche mia sorella e Marco sorridono dalla platea. Sto lì lì per raggiungerli quando mi accorgo che tra il gruppetto di pescatori venuti per protestare contro l'Area Marina c'è anche lui. Adriano.

Adriano

Sarei salito sul palco e l'avrei presa a schiaffi.
Tutto mi aspettavo, fuorché di vederla qui a dire cazzate. Un discorso banale, falso. Possibile che non ricordi più nulla di me, del mio mestiere? Che stronza!
Fingo di non vederla, raggiungo gli altri pescatori già intorno al Presidente. Le parole che volano non sono di festa. - Cosa daremo da mangiare ai nostri figli? - si lamenta Gianni, un pescatore che da poco si è sposato e non sa come dovrà mantenere la sua famiglia se non si raggiungerà un compromesso. - Ci state chiudendo il mare - aggiungo. Il Presidente promette di aprire un dialogo in altre sedi. Così andiamo via, ma senza troppe speranze. E lei mi chiama. - Adriano, ti prego fermati! - Mi volto nella sua direzione, indeciso se avvicinarmi o meno, poi concedo.
- Brava, bel discorso. - Batto vigorosamente le mani.
- Non credevo vi limitasse tanto con la pesca. - Adesso finalmente ha capito perché sono qui.
- Che ti frega a te se domani non potrò più pescare. -
- Allora perché non protestate con più forza? -
- È quello che stiamo facendo, se non fosse per le stronze come te che fanno discorsi sulla pesca senza capirci un cazzo. - La lascio così, neanche la saluto. Ma l'avrei presa a schiaffi e morsi fino a farla piangere.

E lei che fa? Viene a cercarmi. Tanto sa dove trovarmi. Sono sulla barca, armeggio con le reti, fingo di non vederla. - Adriano? - mi chiama. Le faccio un cenno con la testa, non proprio di benvenuto, mi porto a prua ma non scendo dalla barca.
- Se non scendi tu salgo io - mi reclama indispettita e anche minacciosa.
Vorrei proprio vederla salire sulla barca con quei tacchi.
- Io però non ti aiuto. - Mi viene da ridere. Non riesco proprio a mantenere un'espressione seria. Non con lei.
Alla fine scendo dalla barca.
- Ho letto il regolamento e ci sono delle zone riservate alla pesca professionale - mi dice, come fosse un suo problema.
- È un'area troppo grande per un solo paese. -
- Questo vuol dire che siete limitati nel raggio d'azione? - Com'è che si preoccupa di me adesso?
- Vuol dire che mi è stato detto: okay puoi pescare in questa zona, ma rispettando certe profondità, che invece non ci sono. Questo tradotto significa: ti invito a pranzo ma non devi mangiare. -
- Sono a dieta, puoi invitarmi. - Serro le mascelle. Questa donna proprio non ha idea dei problemi che ho. - Francesca, ma che vuoi da me? Hai fatto il tuo bel discorso, hai raccolto il tuo momento di gloria, ora lasciami in pace. -
Mi tira per un braccio: - Ma è mica colpa mia? -
Mi giro con una tale foga che le sono quasi addosso.
- No! Non è colpa tua, ma è anche per il tuo stupido discorso pieno di belle parole che brucia di più. Come hai detto? L'antica sfida dell'uomo con il mare... - sottolineo ironico. - Tu... - mi fermo, come non volessi più parlare. Poi riprendo: - Ma che potevo mai aspettarmi da te? Che vuoi ancora da me? -
E piange.
Fa per andarsene ma la trattengo afferrandole un braccio. L'attiro a me e le prendo il viso tra le mani. La bacio. Si divincola dall'abbraccio: - Ti prego, lasciami andare - dice. Eppure sembra voglia restare.
Si allontana a passo veloce. - Francesca! - la chiamo. Si ferma. La raggiungo. - Non andartene... -
- No, non posso restare. -
Le chiedo una penna.
- Che devi farci con la penna? - Rovista nella borsa. La trova e me la porge.
Le prendo la mano e sul palmo scrivo il mio numero di telefono

Marco

L'ho sentita rigirarsi più volte nel letto. A un certo punto si è alzata, è andata in cucina, si è preparata una tisana ed è ritornata con la tazza fumante tra le mani. Poi si è rimessa a letto e si è stretta a me. Mi ha accarezzato il viso e poi la sua mano è scesa lungo il mio corpo. - Non essere insolente - ho borbottato assonnato, già in estasi. S'è attardata ad accarezzarmi con delicatezza e allo stesso tempo con determinata passione, come fosse a conoscenza dei desideri di ogni cellula del mio corpo, facendomi impazzire di piacere. Era da tempo che non si prodigava in carezze audaci.
Ah, le sue mani, che brividi che sanno darmi.
Francesca mi piacque da subito. Il suo viso di bambina impertinente, le sue labbra carnose e gli occhi di un verde mare in tempesta mi entrarono di colpo nel sangue a solleticarmi il cuore. Ma ciò che più di tutto fece presa sulla mia fantasia furono proprio le sue mani. Affusolate, delicate, da pianista; e sapeva anche come farle parlare. Le gestiva con eleganza misurata, facendole danzare in un leggiadro “pas de deux” con le parole.

Dorme ancora. Rannicchiata su un fianco sembra ancora più vulnerabile. Faccio piano per non svegliarla.
Entro in cucina, mio suocero è seduto sulla poltrona, come mi sente arrivare solleva lo sguardo da giornale che sta leggendo: - Ti va una partita a tennis? -
Non posso dirgli di no.
Ma prima mi concedo una colazione come non mi succedeva da tempo. A renderla speciale è la vista sul mare. Un privilegio avere una casa con un simile panorama.
Torno in camera. Ancora dorme, beata lei, ma mi vedo costretto a svegliarla: - Francy, tesoro, vado a giocare a tennis con tuo padre. -
Mi aspetto che si giri dall'altro lato, come fa sempre, invece scatta seduta sul letto. - E ti pareva: vuole vicino il suo pupillo, mica sua figlia. - Rieccola con le sue fisime.
- E dai... non fare l'indisponente. - Entro in bagno per una doccia, quando ritorno in camera lei è ancora seduta sul letto.
- Sei gelosa? - la punzecchio.
Non mi risponde. Sbuffa.

Francesca

Fino a che punto non voltarsi indietro è tradire il passato, e da che punto in poi significa saper guardare avanti e ricominciare?
Me lo chiedo da quando l'ho rivisto. E me lo chiedo adesso, con più insistenza.
Lo chiamo? No, meglio di no. Solo un saluto. Lascio stare. Ma il foglietto su cui ho scritto il suo numero è come un richiamo. Non so resistere. Gli telefono.
Tre squilli e poi risponde.
- Sono Francesca. -
Un silenzio interminabile. Ripeto il mio nome, dice che ho scelto un brutto momento. Hanno la rete in mare e non può trattenersi al telefono. Mi scuso e gli dico di non preoccuparsi. Lo saluto.
- No, aspetta! -
Resto sospesa: mi invita a casa sua.

Mentre scelgo cosa indossare, Marco è un pensiero lontano, reso quasi inesistente dall'euforia del momento. Un'euforia simile a un volo di farfalle, che spinge lontano morale e doveri coniugali. Un'euforia non tanto diversa da quella che prova mio padre con la sua amante. Perché, alla fine, si finisce sempre per essere la brutta copia di chi vorremmo assomigliare.
Ma davanti al suo portone tentenno. L'euforia lascia il posto a una domanda: Che ci faccio qui? Dovevo inventare una scusa e non venire. Poi lui apre. - Benvenuta! - Scimmiotta un inchino. E sorride.
È più bello quando sorride.
Indossa jeans sdruciti e una T-shirt nera. Ha legato i capelli dietro la nuca. Ed è a piedi nudi. Penso a me: ho impiegato ore per scegliere quale vestito indossare.
- Per brindare... - Gli porgo la bottiglia di vino bianco e il suo viso dipinge un sorriso e negli occhi gli si accende un guizzo da canaglia impertinente.
Entra in cucina. Mentre armeggia con la bottiglia mi guardo intorno curiosa. Respiro la sua intimità. Una bussola antica troneggia sulla parete centrale del soggiorno. - Molto bella - gli dico quando ricompare in soggiorno con due bicchieri colmi di vino tra le mani. - Per non perdere mai la rotta? -
- No, forse per ritrovarla dopo averla persa - dice, porgendomi il bicchiere. - È molto più eccitante perdersi, non trovi? -
Brindiamo.
- Credevo non saresti venuta. -
Era quello che avrei dovuto fare.
Lo guardo, impantanata in ciò che eravamo e non siamo più, in quello che avremmo potuto essere, in quello che siamo ora.
Bevo un altro sorso.
- Se continui di questo passo finirai davvero per perdere la rotta. -
- L'hai detto tu che è più eccitante perdersi... -
Ma che sto facendo? Sembra proprio che io voglia sedurlo.
Cambio approccio: gli chiedo del lavoro. L'orgoglio gli si accende in fretta. Potrebbe parlarne tutta la notte. Mi viene voglia di augurargli buona pesca, solo per il gusto di vederlo infervorarsi. La prima volta che lo feci andò su tutte le furie. Non sapevo che i pescatori fossero così superstiziosi.
Torna a parlare del dibattito tenutosi l'altra sera: - Tutte belle parole quelle che dite, ma nessuno che sa dirmi che cazzo dovrò fare. Devo cambiare mestiere perché le restrizioni non mi faranno più di pescare? Invece di tutelarli i pescatori li faranno estinguere. -
Adriano e il mare, una cosa sola. Un altro mestiere, un'altra vita, non sa proprio immaginarseli. È in mare che prende forma. Come se il suo mestiere servisse a colmargli tutti gli altri vuoti. Ossigeno che lo tiene in vita.
Si alza dalla poltrona, rovista in un cassetto. Mi mostra una foto. Ricordo quello scatto. Eravamo a Maratea, durante il nostro primo campeggio. Quante bugie alla mia famiglia per organizzarmi. Era la prima volta che dormivamo insieme. Per l'emozione non prendevo sonno, tre notti senza quasi dormire, lui invece crollava. Si girava su un fianco, dandomi la schiena. Una schiena abbronzata, arsa di sole, su cui campeggiava il tatuaggio con l'iniziale del mio nome. Gli sfioravo la spalla con la mano, sperando che si voltasse, ma neanche una cannonata lo avrebbe svegliato. Quello sbilanciamento d'emozione un po' mi turbava, sembrava che la mia presenza non lo emozionasse a tal punto da togliergli il sonno, come invece succedeva a me. - È perché sto bene - si giustificava.
Tentò anche di insegnarmi come stare in piedi sulla tavola da surf. - Quando senti la tavola stabile sotto il tuo corpo allora quello è il momento per alzarti in piedi. - Ma era complicato: dovevo alzare il busto, girarmi e portare contemporaneamente avanti un piede, fare forza con le braccia e alzarmi. Non ci riuscivo. - Stai piegata sulle ginocchia - mi ripeteva. Soltanto per pochi secondi, dopo innumerevoli tentativi, fui capace di mettermi in piedi sulla tavola.
Nella foto, sorridiamo all'obiettivo felici e innamorati.
E adesso, un nodo in gola, insieme ad un groviglio insoluto: ho fatto bene? E se avessi sbagliato tutto? Ma domande come questa, in una serata come questa, sono pericolose, come prendere la propria vita e lanciarla in aria, guardandola precipitare. Ma il groviglio esiste. E mi soffoca.
Lui è troppo vicino. Sento il suo respiro sul mio viso. Mi sfiora le labbra con un bacio. Non so reagire. Cerco un motivo per andarmene. Ma il calore della sua pelle non è l'unica cosa che mi strega. Non sono mai stata forte con lui. Da sempre è stato così. Il suo magnetismo mi attira come dentro una morsa, dalla quale non so e forse neanche voglio liberarmi.
- Ti ho pensata tanto - mi sussurra tra il collo e l'orecchio.
Per me è un grido, per lui una rivalsa, per entrambi un tormento.
Marco. Penso a lui e mi ritraggo.
- No, Adriano... non posso. -
- Non puoi o non vuoi? -
- Che differenza fa? -
Mi sistemo al meglio i capelli, afferro la borsa, il cappotto e cerco l'uscita a passi veloci.
- Francesca? - La sua voce è una supplica che m'infiamma.
No, Francesca... non voltarti. Se tornassi a guardarlo negli occhi mi butterei tra le sue braccia, gli chiederei di salvarmi ancora. Così come ha sempre fatto da quando lo conosco.

Adriano

Rischiava di annegare e corsi a salvarla. Così ho conosciuto Francesca. Non sapevo chi fosse, venni attirato dalle grida della sorella, che dalla battigia indicava gli scogli, senza pensarci troppo mi tuffai in mare. La corrente l'aveva trascinata ad oltre venti metri dalla riva. Era bianca come un lenzuolo, mostrava già una sindrome da annegamento con difficoltà respiratorie, ma era cosciente per fortuna. Si aggrappò a me fiduciosa, rendendomi più facili le manovre di salvataggio. Dalla battigia, era stato già chiamato il 118 e allertato il padre. Aveva acqua nei polmoni e fu portata in ospedale. Il padre: - Grazie di cuore, me l'hai salvata - mi disse, insieme a una pacca sulle spalle.
Solo in quel momento mi resi conto di aver salvato la figlia del noto chirurgo De Renzi. In paese lo conosciamo tutti, e tutti lo stimano e apprezzano. Le volte in cui è apparso in televisione, per strada se n'è parlato per giorni, come fosse una star del cinema. Così come si parlò del mio salvataggio. Ero diventato per tutti un eroe.
E forse così dovette guardarmi anche lei quando mi vide, poche settimane dopo, ad una festa in spiaggia. La intercettai subito, d'altronde era la più carina. Indossava pantaloncini bianchi che le mettevano in risalto le gambe lunghe e abbronzate, sui quali aveva abbinato un maglioncino a maniche lunghe con le righe nere e bianche. Magra, quasi informe, un viso imbronciato che s'atteggiava a gran donna, incorniciato da capelli lunghi color del miele. Un bocciolo pronto a schiudersi. Era con le sue amiche, stava per andarsene. Il padre era stato intransigente, non più tardi di mezzanotte. - Te ne vai senza ballare con me? - Un invito che la spiazzò. Infatti, il suo primo sguardo fu d'imbarazzo, che virò subito all'indecisione. E mentre s'interrogava sul da farsi, dallo stereo le note di Some People, di Cliff Richard, un brano di quel periodo, sembrarono a entrambi un accordare al quale non potevamo sottrarci.
Ricordo tutto: la stretta sui suoi fianchi sottili, la sabbia calda sotto i piedi, i suoi occhi verdi nei miei, che sembravano attraversarmi. Forse cominciò da lì, da quell'adesione dei corpi, che a lei lasciò la sensazione, come poi mi dirà, di sentirsi come una mandorla nel suo guscio, a me di attenderla da sempre.
Prendemmo a frequentarci. All'inizio senza troppa convinzione da parte mia. Figuriamoci, una ragazza come lei, di buona famiglia, che aspettava i miei rientri al porto studiando Aristotele e Platone, che poteva mai spartire con un pescatore? Roba da chiacchiericcio sul lungomare del paese. Ma lei riusciva a vedere il lieto fine, come nelle favole. - Amami e basta, senza chiederti il perché - diceva.
Ma far combaciare i miei orari, scanditi dal mare, con i suoi, scanditi invece dal padre, significò legittimare ogni sorta di bugia per incontrarci. Il nostro luogo proibito era il monastero sconsacrato di San Giovanni, sul monte Tresino, lontano da occhi indiscreti. Strade sterrate dal panorama mozzafiato, che percorrevamo in moto. Mi chiamava Bandito: - I tuoi occhi neri mi hanno rubato il cuore. - Ma è lei che l'ha rubato a me. Poi... vabbè, le cose sono andate diversamente.
Caterina Infante
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