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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Rossana Cilli
Titolo: Avevo tredici anni e altri racconti
Genere Narrativa
Lettori 2716 18 13
Avevo tredici anni e altri racconti
BUONGIORNO BUONA GENTE

- Buongiorno buona gente - , disse un giovane rivolgendosi agli abitanti di Poggio Bustone dov'era appena giunto. Questo giovane aveva da poco discusso con suo padre che lo voleva commerciante come lui, e com'era tradizione nella sua agiata famiglia. Lui però, non volendo saperne di quella tradizione, aveva rifiutato ogni ricchezza dal genitore e se n'era andato a piedi fino al limite della sua regione, l'aveva superato e si era messo in cerca della sua nuova strada. Fu così che capitò in quel paesino sabino sospeso tra cielo, boschi e montagne, trovandovi, oltre l'affetto della gente, ciò che cercava: una visione. Una visione che gli confermò d'essere nel giusto, d'essere stato perdonato dei suoi peccati, e d'essere stato chiamato a compiere un percorso di pace per sé e per gli altri. Il giovane s'accorse subito di respirare un'aria insolita, mistica, e trovò lì la gente semplice e vicina al suo messaggio che non gli era riuscito di trovare negli ambienti da cui proveniva. Dai paesaggi dolci e rigogliosi di quei posti e dalla semplicità della gente trasse ispirazione per scrivere pagine e canti meravigliosi sulla natura, sull'uomo e persino su Dio. Fece anche molte opere pie. E dettò regole a chi volle seguirlo. Ma non rimase a lungo fermo.


COMUNQUE QUEST'ANNO NIENTE PRESEPE

Sto facendo jogging con un amico quando vedo da lontano una colonna di fumo che sale verso il cielo, la indico, lui si volta e come me capisce che si sta sviluppando un incendio nel bosco che sorge vicino al nostro paese.
Andiamo a vedere. Raggiungiamo il bosco, ci inoltriamo al suo interno: l'incendio è già enorme. Il fumo ci prende subito alla gola, sentiamo l'aria entrarci nei polmoni e bruciarli, cominciamo a lacrimare e a tossire.
Da qualche parte ho letto che in questi casi si deve mettere sul viso e sulla testa un panno bagnato, purtroppo però noi abbiamo finito l'acqua delle nostre bottigliette.
Ricominciamo a correre, questa volta verso il paese.
Dobbiamo chiamare i soccorsi e metterci in salvo.
Mentre chiamo aiuto al cellulare, continuo a correre, ma a un tratto mi volto indietro a guardare lo scempio che forse un irresponsabile ha provocato con intenzione, o per una qualche criminale leggerezza, complice anche questa stagione pazzesca, calda come non mai, che ha già creato strani fenomeni come quello di pochi giorni fa, delle nostre città avvolte da un inquietante pulviscolo rossastro.

COSE DA NIENTE

Ciao fratello,
Purtroppo devo comunicarti una triste notizia, si è spento il vecchio Armando, il nostro caro custode della casa nel bosco. Mi sono sentito in dovere di andare ai funerali, e così, sebbene siano passati molti anni, sono tornato lassù.
È stata una cerimonia semplice, toccante.
I presenti li conoscevo tutti, e nei loro volti ho visto i segni del tempo trascorso. Immagino che anche loro li abbiano visti sul mio.
C'era nostro cugino Giulio. Siamo andati noi due a ritirare le cose di Armando. Ora le ha il parroco, che è sempre don Luigi.
Armando era frugale, direi spartano, infatti abbiamo impiegato pochi minuti a radunarle. Ci vorrà invece molto più tempo per portare via le nostre, prima di vendere la casa... Ma perché dobbiamo farlo? Lo so, era deciso: finché c'è Armando si tiene e poi via: io non ci vado mai, tu vivi in Francia, i nostri figli neanche la vogliono sentir nominare va a capire poi perché, ma ora che dovremmo farlo davvero, non so, è come se una vocina dentro stesse dicendo no, non fatelo, è sbagliato.
Tornarci è stato più che un tuffo nel passato, mi sono sorpreso di me stesso, forse sto invecchiando sul serio, e come succede ai vecchi, forse anch'io sto diventando facile alla commozione.

DALLA RUSSIA CON FIDUCIA

Il 19 agosto del 1991 Nina, Franco e la piccola Ljuba erano di fatto una famiglia felice. Franco Daverio, bravo imprenditore edile abruzzese in affari anche in Russia, però non poteva trasferirsi a Mosca per mille ottime ragioni.
A Nina andava bene così, sapeva che lui l'amava, le aveva dato una figlia splendida, la coccolava, non le faceva mancare nulla ed era presente quanto più possibile.
Nina dal canto suo si trovò subito a suo agio nel ruolo di mamma, scoprì di possedere un'inclinazione naturale verso i bambini e riversò su Ljuba tutto l'affetto e le attenzioni che poteva. E forse, memore del bimbo perso in Siberia a causa delle disumane violenze subite laggiù, anche più del dovuto. Non poteva certo dimenticarsi della sua infanzia profanata, né il resto della sua vita travagliata. Come biasimarla dunque se già adesso era determinata a difendere Ljuba da tutto e tutti anche a rischio della propria vita? Quando allattava, la guardava poppare e le diceva, tu sarai più felice di me, tu avrai tutto, poi staccava la neonata per passarla all'altro seno, la baciava sulla guanciotta arrossata e lucida e aggiungeva, tu non sarai mai magra come la mamma. A te non accadrà niente di male, mai, perché io sarò sempre vicino a te. Promesso. La bimba sembrava capirla, le rivolgeva dei sorrisetti dolci, le si attaccava alle dita con quelle manine minuscole, soffici, ponendo così le basi per un legame straordinario.
Ma cosa c'era di particolare quel 19 agosto?
C'era che l'annunciatore alla radio stava dicendo che Gorbačëv aveva rimesso il potere nelle mani della giunta e sciolto il partito comunista, una cosa che suonava inaudita. E invece era tutto vero.

LE DITA DELL'ALBA
Era un gelido mattino di febbraio. Il cielo prometteva il peggio, era saturo di nuvole gonfie, dense, d'un cupo color metallico e sul punto di esplodere e liberare un terribile carico d'acqua, grandine o chissà che. Un tempo senza speranza.
Come don Ferdinando.
Don Ferdinando era stato un uomo imponente, altissimo: due spalle fatte apposta per sostenere il mondo; la testa leonina per via di quella chioma bianca e ribelle che incorniciava la fronte ampia segnata da tre lunghi solchi paralleli; le folte sopracciglia marezzate d'argento che delimitavano due occhi scuri e ora spenti ma un tempo guizzanti di brace inquieta; il naso grande, sgraziato, venato di viola, piazzato come un montarozzo in mezzo a due gote grigie e cascanti; il collo, rivestito d'uno strato sottile e quasi trasparente di cute, simile allo specchio d'acqua increspato dai capricci del vento, e il mento volitivo moltiplicato adesso dalla posizione supina.
Che sarebbe stata la sua per il resto del tempo. Dei tempi.
Perché lui era nel sonno eterno, e tuttavia ancora temibile.
L'ampio addome era fasciato in un elegante panciotto di pregiata lana inglese ma, poiché il defunto era stato deposto in un'imponente cassa di rovere a forma di sarcofago egizio, appariva meno prominente. Gli arti un tempo scattanti e ben torniti, erano divenuti troppo secchi, ma anche a loro l'elegante vestito di raffinata lana inglese risparmiava la brutta figura. Così dunque don Ferdinando si presentava al saluto dei convenuti, maestoso e autorevole come tutti lo ricordavano prima che la lunga malattia, inesorabile, avesse la meglio su di lui.

LE PERLE RISALTANO SUL NERO

- Vediamo se ho capito: tu mi stai chiedendo di investire una montagna di soldi per produrre un film sulla storia di tre tizie di cui nessuno ha mai sentito parlare - .
- Esatto - .
- E secondo te, io dovrei dare a Kevin Costner il ruolo di protagonista maschile - .
- Esatto - .
- Senti Theo, lo sai, io ti stimo come regista, il tuo St. Vincent mi è piaciuto ma questa storia non ha senso, e soprattutto non ha futuro. E poi ti sembra questo il momento di far uscire un film che parla di tre americane di colore col pallino della matematica? -
- È un po' riduttivo metterla così, Pet - .
- Non lo so Theo, che hanno di così speciale queste tre? -
- Ce l'hai dieci minuti? -
Questo colloquio avveniva un giorno di settembre del 2015 fra il regista Theodore Melfi e il produttore Peter Chermin.
Melfi si era appassionato a un libro di Margot Lee Shetterly ancora in fase di scrittura ma del quale Hollywood aveva già comprato i diritti cinematografici.
Il libro si intitolava Il diritto di contare, e lui si era messo in testa di usare quei diritti per trarne un film.
Ne aveva parlato al suo amico Costner, il quale aveva approvato l'idea senza riserve, accettando subito la parte se mai si fosse fatto, perché naturalmente ora il problema era reperire i finanziamenti per farlo, il film. E con i produttori, si sa, bisognava essere convincenti. Soprattutto se erano amici.

MIO AMATISSIMO LUDWIG Lipsia, 21 marzo 1822

La vostra ultima lettera era invero breve, ma bellissima, anche nel suo aspetto: carta di qualità superiore, ornamenti cromatici, bordo dorato, una calligrafia insolitamente accurata, sebbene ahimè lontana nei toni dalle righe appassionate dei tempi di Teplitz, (non è l'attrazione dell'altro sesso che mi attira in voi, no, soltanto voi, tutta la vostra persona con tutte le vostre qualità hanno incatenato il mio rispetto...).
Però vi trasuda un sentore di stanze lussuose e indolente opulenza, si percepisce che ora vi dedicate a un compito, perdonatemi se lo dico con tanta chiarezza, indegno di voi, della vostra grandezza, qual è organizzare un programma didattico per rampolli tanto titolati quanto svogliati e privi di talento. E vi si percepisce un'urgenza per qualcosa che, scrivendo, vi lasciava poco tempo per me.
Ma vi capisco, nessuno vi conosce meglio di me e conosce il fuoco che vi divora. Del resto, voi siete un artista, il sacro fuoco dell'arte guai se si attenuasse in voi.
Perciò vi perdono. A patto però che ciò che vi urgeva e induceva a tanta brevità fosse la decisione di dare inizio all'opera che trascurate da troppo tempo e per la quale pare non troviate la giusta ispirazione.

NON CE LA FARA'

Era un giorno perfetto.
Ero in vacanza, avevo ventiquattro anni, ero piena di vita e vitalità, e mi sentivo invincibile. Mia madre era con me, una cosa non così rara, ma neppure frequente, comunque quel giorno io e lei avevamo deciso di regalarci una giornata al mare. Ma che mare, era agitatissimo, fragoroso, il vento toglieva il fiato, ci incollava i nostri leggeri abiti addosso; io, in pantaloncini corti e camicetta, me la cavavo meglio di lei, che in abitino di jersey a motivi geometrici rossi e blu, era impegnata in una impari lotta con i capelli che le entravano e uscivano dagli occhi e il jersey che si sollevava e riscendeva in continuo frustandole le gambe con tutta quella sabbia vetrosa che ci vorticava intorno.
Le onde rotolavano come tanti tubi rilucenti e portavano la loro spuma bianca e effervescente a infrangersi quasi addosso alla gente, tutta prudentemente seduta lontano dal bagnasciuga.
Io ero stordita dalle raffiche potenti, dal rumore frastornante, dal boato del mare. Molti erano già scappati via, ma noi due no, noi ce la stavamo godendo tutta, quella potenza. In quel momento così pieno di luce, colori, clamori, mi sentivo esposta alla furia mobile della natura, ma sicuramente non meno forte di lei.

UN FAVORE PER GIULIETTA

- E io dovrei salire su quella specie di farfalla di carta che tu chiami aereo? -
- Non è di carta, quelli di carta li facevamo a scuola. Hai presente? Triangoli con le ali, fatti con i fogli di quaderno, da tirare ai compagni da un banco all'altro - .
- E poi ha un motore solo - .
- E allora? Lindbergh con un motore solo ha trasvolato l'Atlantico - .
- Questa è la storia che usate sempre voi piloti per convincere noi comuni mortali che un qualsiasi arnese dotato di ali sarebbe più sicuro di auto, treni e pullman - .
- Esatto, tesoro. Ti rendi conto di cosa significherebbe attraversare questi luoghi con uno dei mezzi che hai appena nominato, credimi, non sapresti cosa augurarti di più, se incontrare una banda di miliziani, una tribù Hutu o sbiellare il motore: siamo in mezzo alla giungla in un paese in guerra - .
- Non me lo ricordare. Ma come ho fatto a farmi convincere da quel pazzo del tuo amico a fare una cosa così folle? -
- Perché hai un cuore d'oro Giulietta, solo tu potevi fare una cosa così, qui -
- Santo Iddio smetti di ricordarmelo. Comunque io con quello non vado da nessuna parte. Per oggi ho già dato mi pare, no? Perciò da adesso mi muovo solo in auto o in treno, con quello mai. E ora che lo vedo, bè... dico che non dovresti usarlo neanche tu - .
- Quello lo porto io. Ti fidi di me? Ti prego sali e non pensarci più, sei con me e io ti prometto il più bel volo sul Bwindi che essere umano abbia mai compiuto, e magari da lassù riusciamo pure ad avvistare i grandi gorilla di montagna. Allora, non ti eccita l'idea? -
- Ci mancavano pure i gorilla. E comunque ci devo pensare. Io odio volare! -

VERSO NORD

Non era il mio volo, non toccava a me, ma lui si era dovuto alzare più volte durante la notte per via di una tosse nervosa, sibilante, che gli scuoteva le spalle e gli riempiva la bocca di un liquido così amaro da togliere il respiro. Il telefono squillò. Jim sta male. Lo sostituisci tu, dice la voce che mi raggiunge nel dormiveglia. Chiudo. Mi scende un peso grave sul petto che non riesco a decifrare, ma ormai sono sveglio del tutto, mi soffermo a guardare le ombre che si addensano negli angoli della stanza e tra le pieghe delle tende, riprendo sonno.
La mattina succede di tutto: la sveglia non suona, infatti non l'avevo messa, l'acqua calda non c'è, non avevo bisogno di accendere la caldaia, la divisa non è stirata, non dovevo partire. Mi preparo come meglio posso, arriverò al pick-up con solo dieci minuti di ritardo, cosa che non mi risparmierà il coretto dei colleghi.
Non basta, il giorno prima ho discusso con Katrin, la mia eterna (non per colpa sua) fidanzata. Se n'è andata dicendo è finita. Farà sul serio questa volta?
Non lo so, ma intanto dentro mi rimane una sorta di angoscia. È in momenti come questi che capisco con chiarezza perché ci si sposa, cosa che Katrin tenta di spiegarmi da quasi sei anni: per avere una presenza accanto, un risuonare di tacchi intorno, un bagno occupato, la colazione apparecchiata per due, qualcuno a cui raccontare cose, anche insignificanti, qualcuno che c'è anche se sta in silenzio. Qualcuno a cui dire che devi partire, e hai bisogno del suo abbraccio, il suo saluto.
Che questa volta non c'è stato.
Non sono superstizioso tuttavia penso che non sia un buon segno. Mi avvicino alla finestra, l'apro, l'aria fresca del mattino mi fa bene, non mi libera dal peso oscuro dell'assenza di Katrin ma lo attenua.
Appoggio i gomiti sul davanzale e rimango un po' a guardare il sorgere del sole, il cielo rosa, gli uccelli sugli alberi, un'automobile che corre sulla strada vuota.
Perdo così i dieci minuti che mi faranno arrivare tardi al pick-up.

VIRGINIA

Virginia stava considerando quanto fosse incantevole il Maso di Franz anche ora, sommerso dalla neve. C'era stata l'estate prima, per questo conosceva alcuni sentieri; ne prese uno che ricordava. Portava ad un laghetto, piccolo e così limpido che si potevano vedere tutti i sassi che stavano sul fondo, grandi sassi bianchi, tondi, levigati e puliti sotto quell'acqua purissima, azzurra e verde con la quale il sole, il vento e le mille creature che la popolavano giocavano in continuo a disegnare cerchi, crestine, piccole onde, riflessi di mille colori.
Ma quello era il lago d'estate.
A dicembre il lago praticamente non c'era più. Ecco perché dopo pochi attimi Virginia aveva capito come mai l'acqua si rimescolava sopra e sotto le sue pupille e lei vedeva gli alberi e i monti attorno come deformati, liquidi, e come mai di nuovo l'acqua, frammista a frammenti di ghiaccio, tornava a ricolmarle gli occhi e a ferirli: la lastra che aveva preso il posto del lago, e dove lei era finita senza rendersene conto, s'era aperta sotto i suoi piedi e la stava ingoiando. Mentre lo capiva cominciò ad annaspare, ma più lei si dimenava, più l'acqua gelida la tirava sotto. Scalciando, però, riemergeva, e per un attimo riuscì persino a sollevarsi fino ad uscire con tutta la testa. Ne approfittò per respirare profondamente e per lasciare finalmente che quell'aria che cercava furiosamente, passasse. Fu l'illusione d'un attimo appunto, di nuovo l'acqua riprese a strangolarla, e ristagnava in gola, e lei cercava di rigettarla con forza come un cibo amaro che lo stomaco non vuole più.

VOL DE NUIT

La casa sulla piazza la conoscevano tutti, anche Mario, ma lui era un ragazzino, quanto avrà avuto, dodici, tredici anni?
Perciò per lui niente da fare, interdetta ancora per parecchio. Già perché la casa era una di quelle cosiddette chiuse, e raccoglieva segreti e misteri che Mario poteva solo immaginare, anzi no, in realtà non poteva, però lui immaginava lo stesso, a modo suo.
Una volta gli era capitato di veder uscire da lì una ragazza dai capelli fulvi e la pelle così chiara da sembrare trasparente, aveva un viso pulito, un corpo sottile, a lui sembrò un angelo e se ne invaghì. Da quel giorno spiava sempre il portone della casa nella speranza di vederla uscire, ma una volta che lei s'affacciò sul terrazzino, la vide lassù, avvolta in una nuvola di tulle e raso color cipria, e non smise più di fissare anche quello. Purtroppo però né lei, che si chiamava Aurora, né le altre sue compagne uscivano spesso in strada o sul balcone.
In compenso c'era un via vai di uomini che entravano e uscivano da quel palazzo.
Mario allora si metteva in un certo posto della piazza dal quale poteva vedere bene all'interno, e così scorgeva una donna opulenta e ben truccata che li accoglieva prima che quelli sparissero oltre una porta segreta.
Mario un giorno decise che doveva entrare, si fece coraggio e suonò; il portone si aprì con uno scatto e lui si meravigliò tanto di quell'apertura misteriosa, magica, che quasi non si rese conto che la signora, intanto che lui vagava con gli occhi alla ricerca di chi gli avesse aperto, l'aveva raggiunto e lo stava trascinando fuori per un braccio. Proprio allora apparve Aurora e lui ebbe il tempo di sentirla ridere. Chiuse gli occhi involontariamente come per ascoltarla più a lungo e si beò della sua voce, della sua risata improvvisa e argentina; li riaprì giusto in tempo per vederla avanzare incontro a un giovane con un passo leggero che le scopriva le ginocchia sollevando la sottoveste di seta lucente. I due varcarono la porta segreta, Mario finì in strada e il portone si richiuse dietro a lui.

AMERICAN BEAUTY

Caro papà,
sono molti anni che non sei più tra noi, ma il ricordo di te non si affievolisce mai. Ce ne sono moltissimi di ricordi legati a te, ma ce n'è uno che torna sempre vivido e gioioso a scaldarmi il cuore e a consolarmi della tua assenza. È il nostro viaggio in America, noi due soli. Ricordi quanta eccitazione prima di partire, quanti preparativi? Grazie a quel viaggio ho avuto i miei primi vestiti “da donna” e la mia prima borsa di pelle, color ocra, bellissima. Io che da quel maschiaccio che ero usavo solo jeans.
Per te quello era un viaggio di lavoro, non conoscevi l'inglese e ti eri immerso in un corso pazzesco, per quanti? Cinque o forse sei mesi, per essere pronto e all'altezza come sempre. In teoria io invece lo conoscevo già l'inglese, anche se in realtà era scarso e scolastico anche il mio. Ma che importa: America aspettaci, stiamo arrivando!
Avevo diciassette anni, non avevo ancora mai volato e avevo una passione smisurata per tutto quello che non toccava terra. Erano gli anni degli allunaggi, della NASA, del cielo scrutato ogni notte col tuo telescopio.
Erano gli anni in cui io la sognavo l'America delle conquiste, e mai avrei immaginato di poterci andare davvero e così presto.
Finché al lavoro ti dicono che andrai in trasferta in California e che c'è un posto da accompagnatore per ciascuno dei partecipanti.
Lo sappiamo come andò. Alla fine quel posto toccò a me.

AVEVO TREDICI ANNI

Avevo tredici anni, una passione vera per tutto ciò che riguardava gli astronauti, la NASA e la Luna, e la notte, quella notte, ero incollata allo schermo del televisore come tutti a seguire l'Evento.
Ricordo le mie piccole mani intrecciarsi, stringersi l'una all'altra, e le dita contratte affondare le unghie smangiucchiate nei palmi mentre aspetto che il piccolo passo finalmente si compia.
Volgo lo sguardo intorno. In ogni finestra spalancata sulla calura di un luglio romano afoso e silenzioso, la luminescenza azzurrina di mille televisori accesi conferisce un che di spaziale e rarefatto anche a una grande strada che di giorno è un fiume intossicante di motori rumorosi e indisciplinati. Una tosse rauca, una risata un po' nervosa, un rumore di passi e di stoviglie, un pianto di neonato subito consolato da braccia amorevoli che lo prendono e lo cullano passeggiando su e giù, mi raccontano di ansie, di attese, di occhi anch'essi fissati da ore a uno schermo.
I telecronisti in studio si affannano a riempire l'attesa; raccontano il silenzio immane che avvolge il fragile modulo che custodisce due vite umane, e la bellezza della loro impresa; ma la bellezza è un'attrazione che le parole e i pensieri non avranno mai.
Non c'era niente che potessero dire di lassù che non fosse già noto o senza importanza, eppure andava detto, perché le parole esistono per essere usate, per farci capire, farci immaginare, farci condividere.

Rossana Cilli
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