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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Writer Officina
Autore: Matthew Arkham
Titolo: Rózsakert
Genere Horror
Lettori 2730 9 2
Rózsakert
Dal buio più profondo.

È un rumorio melodioso quello che mi sveglia ora... nel cuore della notte.
Lo sento intrufolarsi nella mia coscienza intorpidita, finché non mi strappa al buio profondo del sonno REM, popolato da incubi e sogni. Ora sono sveglia. Stropiccio un po' gli occhi e poi li apro. La prima cosa che vedo è la nostra foto, sul comò accanto al letto, nella cornice d'argento cesellata che mi regalò mia madre. Siamo noi tre durante l'ultima vacanza, in Grecia. Eravamo sulla spiaggia del Navagio di Zante. Un autoscatto. Eravamo bellissimi. Felici. Ancora ignari del male che dimora nel buio.
Ripensando a quello e altri memorabili momenti da quando nostro figlio Micky, il piccolo Michele, è nato, portando la luce nelle nostre vite, mi alzo dal letto nel cuore di questa notte carica di silenzi e promesse. Ancora un po' instupidita dal dolce miele del sonno scuro e profondo, esco in punta di piedi dalla camera da letto e attraverso al buio il corridoio per entrare nella cameretta di Micky.
Loro due sono lì, stretti in un abbraccio paterno tra poster colorati di Micky Mouse e Pippo, modellini Burago e carri armati che si trasformano in robot giganti, una maschera da diavolo coi dentoni bianchi e il casco nero di Dart Fener che mia sorella ha riportato da un viaggio in California anni fa.
Sono mio marito Morgan e nostro figlio Micky.
Rimango ferma sull'uscio, poggiata allo stipite della porta, a guardarli come incantata. La stanza è rischiarata dal bagliore lattiginoso della tivvù sintonizzata su un canale h24 di clip musicali. Trasmettono, adesso, le prime note di I should live in salt, dei The National, che mi ha svegliato poco fa. È una bella canzone. Anche se io e Morgan apprezziamo altri generi, altri artisti, altri tempi. Siamo figli degli anni '80 e per noi le cose migliori sono state fatte in quel periodo: i bomber, i Levis, le Timberland, le acconciature più stravaganti, i telefilm americani (che ancora non si chiamavano serie tivvù) dove tutto finiva sempre bene. Le cose anni '80 possedevano una semplicità e un ottimismo contagiosi come un raffreddore. Era la bellezza di un tempo idealizzato, forse perché legato all'infanzia e alla sua magia che colora ogni cosa, anche la più grigia, la più triste. Per noi figli degli anni '80, la moda, la musica e i film migliori sono morti da più di vent'anni. Amiamo quei tempi come i nostri genitori amavano i Beatles e i film di Fellini e De Sica.
Mentre mi perdo nei ricordi dell'infanzia, mi appoggio meglio allo stipite, un lieve spostamento di peso da una gamba all'altra che richiama l'attenzione di Morgan. Mi guarda un attimo e subito sorride. Ma resta concentrato su nostro figlio. Lo culla tra le braccia magre e forti, al ritmo della musica, mentre Micky fa la linguaccia e dà dei colpetti con la manina sul naso schiacciato da ex pugile di Morgane e lui replica stropicciandogli i capelli neri. Giocano e scherzano insieme, padre e figlio, complici immortali, sospesi nel cuore della notte su uno sfondo di stelle infinite che fa capolino dalla finestra, così stupende, come una distesa di diamanti su un velo di seta nera. Là fuori c'è un gran silenzio. La città dorme. E noi, qui, in questo non luogo senza tempo, felici e uniti. La famiglia Corsari al completo.
Ma non è stato sempre così. Abbiamo avuto momenti difficili, momenti di disperazione, di autentica oscurità, come tante famiglie che lottano per sopravvivere. Ora è tutto chiaro nella mia mente, ogni ricordo, ogni singolo evento che negli ultimi anni ci ha precipitati nel buio più profondo. E sono consapevole che, un giorno, prima o poi, dovrò spiegare tutto a mio figlio. Gli dovrò spiegare che cosa è successo. Ma non adesso, perché Micky ancora è solo un bimbo di quattro anni e mezzo. Un bel bimbo dagli occhi verde foresta e dalla zazzera nera, che ama gli eroi della Disney appesi in cameretta con gli stick adesivi; un bimbo che pensa soltanto alle avventure in tivvù del coniglietto Bing e della coppia di amici Pip e Posy; un bimbo che impazzisce per le costruzioni a mattoncini e che desidera far sfrecciare le sue automobiline Hot Wheels; un bimbo le cui uniche preoccupazioni sono le attività didattiche all'asilo e i suoi orsacchiotti "Max la Volpe" e "Grigio il Topo" che deve tenere stretti a sé sotto la copertina prima d'addormentarsi.
Questo è tutto il mondo di mio figlio Micky, un mondo dolcissimo, di sfumature colorate, un luogo innocente che voglio preservare il più a lungo possibile, come ogni buon genitore. Perché ogni buon genitore spera che il proprio figlio debba fare i conti col male il più tardi possibile. Ma quando ciò accadrà, come dice sempre Morgan, nostro figlio dovrà essere attento e consapevole. E soprattutto, dovrà saper fronteggiare ladri, prepotenti, sfruttatori, criminali... e mostri. Già. I Mostri. E per quello, putroppo, non dovremo attendere ancora a lungo. Perché i Mostri sono già tra noi.
I Mostri si nascondono nelle nostre case.
E per quanto io provi disgusto e la cosa mi angosci, da brava madre dovrò sedermi con Micky, davanti a un tè o un buon cioccolato caldo, per svelare a mio figlio i terrificanti misteri di realtà a noi precluse, di spazi oscuri tra gli spazi, di mondi e creature inconcepibili che ancora sfuggono alle nostre percezioni e alle scienze umane. Dovrò spiegare a mio figlio che il male non è solo ciò che vediamo nei notiziari in tivvù, il male della realtà quotidiana, fatta di soprusi, ricatti, violenze, disoccupazione, pandemie e guerre. Anche se, già così, il mondo sembra l'inferno immaginato dai popoli antichi oppure da Dante nella Divina Commedia. Provo un grande sconforto nel sapere che esiste molto più di questa netta separazione tra malvagi e redenti, e che presto, tra pochi anni, dovrò spiegare a mio figlio che il male è un abisso di cui non potremo mai scorgere il fondo. Ma per fortuna, in questo complicato mestiere, che è quello del genitore, per il quale non esistono patentini o esami d'abilitazione, mi aiuterà sempre Morgan da bravo padre qual è.
Sì, ora lo so. So che andrà tutto bene. Ora che li guardo abbracciati in questa notte così dolce, così tranquilla, mentre dondolano adesso al ritmo di Forever young di Rod Stewart come fosse una ninna nanna, non ho dubbi che sarà così. Incantata da questo spettacolo d'amore paterno, la mia mente si mette a ricostruire per la millesima volta (come un disco rotto) tutto ciò che abbiamo passato. Addirittura, adesso, incomincio a immaginare la lunga e difficile conversazione che un giorno dovrò avere con mio figlio. La lunga conversazione con la quale dovrò raccontargli... del Male. So che forse distruggerò la sua innocenza, ma cercherò di trovare le parole giuste per spiegare a un ragazzino che esistono mostruosità e orrori nascosti non solo là fuori, nelle misteriose profondità dell'universo, ma anche qui, tra noi, nell'innocua oscurità ai piedi del letto o alla fine di un corridoio buio.
Perché nel buio ci sono cose che ci osservano. Che ci spiano. Che ci attendono.
E che hanno fame di noi...
Cristo, certe volte penso che sia tutta una follia e dubito io stessa che l'Uomo Nero esista. Ma per ricordarmelo, non devo fare altro che tirare su la manica della maglia o abbassare una spallina. E così le vedo. Oh sì. Vedo le cicatrici ancora bluastre di graffi e morsicature. Sono la prova che il Diavolo non ha molta più fantasia degli uomini che hanno inventato la crocifissione o la bomba atomica. Anche se tal volta, bisogna ammetterlo, il Male sa essere molto più raffinato. Molto più diabolico. Ma sono certa che la mente di un ragazzino in gamba riuscirà a capire tutto questo e ad accettarlo, più di quanto farebbe un adulto assuefatto alla banalità del quotidiano, che in realtà è solo un facile rifugio dalle cose agghiaccianti e incomprensibili che ci accadono. Mio figlio, il mio dolce Micky, un giorno dovrà comprendere che sono gli uomini i mostri peggiori... qualunque forma essi assumano. È questo che dovrò fare da brava madre.
Dovrò preparare mio figlio.
Perciò, mentre osservo Morgan e Micky con infinito amore, nell'attesa che il sonno vinca nostro figlio, cerco davvero d'immaginare questa lunga e strana chiacchierata che un giorno dovrà gettare luce su mondi e realtà sconosciuti. L'inizio sarà la parte più difficile. Perchè l'inizio di ogni storia è sempre la parte più difficile. Quindi mi domando: quand'è che tutto è iniziato? Intendo dire, veramente iniziato? Credo di sapere già la risposta. Il nostro incubo non è iniziato quando ci siamo trasferiti a Stria. E neppure quando abbiamo preso possesso dell'antica e meravigliosa Villa Rózsakert. Per me tutto è iniziato prima. Ben prima dei rumori strani, delle cose che si muovono da sole, dei lunghi sospiri, delle presenze nel buio.
Caro Micky, tutto è iniziato quando tuo padre Morgan è tornato dalla morte.
È così. E ora, nella mia mente, riordino un po' per volta i fatti, rimetto in fila tutti i miei ricordi e immagino... sì... immagino quello che un giorno, Micky, tesoro mio, ti dovrò raccontare dell'essere terribile e infernale che io e tuo padre risvegliammo...
...dal buio più profondo...

Nessuna buona azione resta impunita.

Micky, tesoro mio, prima di raccontarti di quel maledetto venerdì sera in cui tuo padre Morgan morì per 17 minuti e 53 secondi, per poi tornare alla vita, è necessario che io ti faccia una premessa importante affinché tu possa capire. Perché ci sono alcune cose che dovrai capire... e altre che dovrai semplicemente accettare.
Prima che tu nascessi, io e tuo padre, dopo esserci laureati, cercammo di mettere a frutto i nostri titoli di studio. Eravamo usciti con buoni voti dalla facoltà di Lettere e Filosofia; il che, in questo paese, equivale a dire "qualificati per pulire latrine e scale condominiali", anche se in realtà nessuno ci avrebbe mai assunto neppure per quelle mal pagate ma dignitosissime mansioni. E tra futili lavori part-time e decine e decine di concorsi statali a vuoto, alla fine avevamo superato i trentacinque anni d'età senza aver trovato un briciolo di stabilità. Perciò decidemmo di accantonare le nostre illusioni, di trovare dei lavori detestabili ma seri (così dicono gli adulti) e di concentrarci sull'unica cosa per noi davvero importante: Michele Corsari, nostro figlio. E quando sei nato, per noi è stato come esser folgorati da una luce potente, una specie di rivelazione, una... epifania. Quindici ore di travaglio per me e due notti insonni in sala d'attesa per tuo padre. Un taglio cesareo d'urgenza, una settimana d'incubatrice e poi una nuova vita per tutti e tre in un bilocale economico al Quadrilatero di Torino.
Finalmente la famiglia Corsari era al completo.
Ma non credere che sia stato un totale azzardo. Tuo padre e io ci eravamo liberati degli ultimi lavori sottopagati da schiavi moderni e avevamo messo qualcosa da parte con tanti sacrifici. La mamma di tuo padre, nonna Livia, e tuo nonno Renzo, mio padre, ci aiutarono a realizzare questo piccolo sogno. La tua cameretta dipinta d'azzurro cielo con tante nuvolette bianche fu pronta in un paio di settimane. E così, mentre io ti allattavo, e il coronavirus dalla Cina sbarcava a Torino, tuo padre trovò lavoro in qualità di corriere presso una delle aziende di trasporti che fornivano servizi agli store di e-commerce durante i continui lockdown. Lo stipendio non era granché, ma tuo padre guidava come un pazzo da mattina a sera pur di mantenere gli standard lavorativi imposti dall'Algoritmo dell'azienda. Oggi sono i software, le cosiddette "A.I." (le intelligenze artificiali), che decidono quante consegne devi fare in due ore e se ti puoi fermare a urinare oppure devi farlo in una bottiglietta di plastica come un'astronauta. Peccato però che i computers, nonostante la loro intelligenza superiore, non sappiano tenere conto dello stress e della stanchezza accumulati da un essere umano. E così, da diciotto mesi, tu crescevi bello e forte e tuo padre lavorava da mattino a sera come un robot. Dentro casa parlava pochissimo e intanto la sua vita s'era ridotta all'essenziale, tipo guidare, mangiare, dormire e ancora guidare. Eppure, di soldi ce n'erano sempre pochi e noi non facevamo altro che discutere per questo. Eravamo spaventati, Micky, lo eravamo da tantissime cose. Ma mai quanto lo saremmo stati in seguito.
Comunque, quel maledetto venerdì, chiamato nel gergo commerciale Black Friday, e cioè uno di quei giorni in cui ci sono grandi sconti e tutto il mondo sperpera denaro posseduto dallo stesso demone, tuo padre aveva già lavorato una decina di ore filate senza fermarsi. In precedenza, aveva ricevuto due richiami dai suoi responsabili per dei ritardi nelle consegne e temeva di perdere il posto. Quella sera, lo ricordo ancora bene, diluviava. Tuo padre era in ritardo per una consegna di scarpe da ginnastica, o di attrezzi ginnici, insomma qualche cavolata del genere. Dal Lingotto doveva tornare verso il centro passando per la trafficata Corso Unione. Aveva scordato di mettere la cintura di sicurezza e il cicalino del sistema SBR del furgone, che ti ricorda d'indossarla, non funzionava. Ma quella sera non fu la sola cosa a non funzionare. Stava andando sopra il limite e al semaforo di un incrocio, convinto di far in tempo, passò col rosso invece che col giallo. Tuo padre ha sbagliato. Ma la paura, Micky, può farti correre, può tenerti sveglio, può farti fare cose che neppure vorresti. Tuo padre è passato col rosso ma l'ha fatto per tenersi stretto un lavoro che serviva a sfamare la sua famiglia. Credeva di fare una cosa buona. Ma, purtroppo, come recita un vecchio adagio cinese: "nessuna buona azione resta impunita". I cinesi hanno ragione.
All'incrocio, il furgone di tuo padre venne travolto da un camion frigo di quindici tonnellate che trasportava dei surgelati. Alcuni testimoni riferirono di aver udito un gran boato, tipo l'esplosione di una bomba. Il furgone s'accartocciò in un attimo, come una lattina vuota, e poi venne trascinato per una ventina di metri. L'impatto, dissero i poliziotti alla conclusione dei rilievi, doveva esser avvenuto a circa ottanta chilometri orari. Quando i vigili del fuoco e l'ambulanza accorsero sul posto, tuo padre doveva esser ancora cosciente perché, tra le lamiere che lo imprigionavano come una bestia nel morso di una tagliola, batteva e urlava a squarciagola chiedendo aiuto. Non so dirti quanto abbia resistito. Ma so che i vigili del fuoco lo hanno tirato fuori ormai privo di coscienza. Non aveva semplicemente perso i sensi. Era in arresto cardiaco.
Tuo padre era morto.
Appena l'adagiarono al suolo, insanguinato, fisicamente distrutto, come fosse stato aggredito da uno squalo piuttosto che da quindici tonnellate d'acciaio, i paramedici tentarono subito di rianimarlo col defibrillatore. Tentarono per 17 minuti e 53 secondi finché tuo padre non tornò da quel luogo misterioso che sta in mezzo ad altri luoghi misteriosi e dal quale nessuno torna mai. Ed io ringrazio ogni giorno quei paramedici per non essersi arresi dopo 17 minuti e 53 secondi.
Tuo padre grazie a Dio era vivo... ma in condizioni drammatiche.
L'ambulanza lo portò d'urgenza all'ospedale Molinette, dove vi era disponibilità di posti letto in terapia intensiva nonostante l'ondata del Covid. Lì venne posto in coma farmacologico. Un lungo sonno chimico, per poi sottoporlo a tre interventi nel tentativo di ridurre l'emorragia cerebrale e le lesioni interne. Micky, non puoi immaginare quello che io e tua nonna Livia, la madre di tuo padre, abbiamo passato. Tu eri troppo piccolo per ricordare. Posso dirti che io e tua nonna andavamo a trovare tuo padre ogni giorno e ogni giorno il primario della terapia intensiva scuoteva la testa negandoci quel miracolo tanto atteso. Era una sofferenza terribile vedere l'uomo che amavo col tubo del respiratore in bocca, come se un serpente cercasse di infilarglisi in gola, e poi con tutti quei tubi e deflussori attaccati al corpo simili ai tentacoli di un calamaro abissale che cercava di divorarlo dall'interno. Invece quei marchingegni, poco a poco, alimentandolo e respirando per lui, cercavano di riportarlo alla vita.
E dopo diciassette giorni... finalmente... il telefono squillò.
Il primario della terapia intensiva ci convocò a colloquio in ospedale, presso il suo studio. Informò me e tua nonna Livia che tuo padre stava migliorando, che le lesioni interne guarivano, che l'edema cerebrale era in regressione, e che il fegato e il polmone destro (dai quali avevano estratto delle schegge d'osso) stavano recuperando le loro funzionalità. Anche il cuore mostrava evidenze cliniche di stabilità. Il primario ci disse che, se tutto andava bene, e se i dati clinici rimanevano incoraggianti, da lì a tre o quattro giorni tuo padre sarebbe stato risvegliato dal coma farmacologico. Dal buio, Morgan Corsari sarebbe stato riportato alla luce.
Il medico fù di parola. Pochi giorni dopo, a tre settimane e mezzo dall'incidente, il suo staff ci chiamò dal reparto di terapia intensiva. Tuo padre sarebbe stato risvegliato. Due ore dopo, io e mia sorella Sandy eravamo già nella sala d'attesa del reparto di Terapia Intensiva, in compagnia di tua nonna Livia. Lei se ne stava seduta con la solita aria tesa e infastidita su quella faccia da sfinge settantenne ringiovanita chirurgicamente. Si vedeva che quella stronza moriva dalla voglia d'accendersi una sigaretta. Sai, io e tua nonna ci siamo sempre mal sopportate, però quel giorno, in sala d'attesa, mi avvicinai con le migliori intenzioni. Volevo solo scambiare con lei qualche parola di incoraggiamento. In testa avevo come delle nubi nere e mi tremavano le mani per la tensione... ma giuro che volevo essere gentile.
«Dov'è Michele?» mi chiese senza neanche salutarmi, quando mi avvicinai.
Domanda futile. Posta volutamente da tua nonna al solo scopo d'irritarmi.
Ma le risposi comunque con la massima calma.
«Ne abbiamo già discusso, Livia. Micky è a casa con mio padre. Non voglio che si impressioni vedendo suo padre in quelle condizioni.»
Tua nonna fece il solito mezzo ghigno storto, sardonico, un misto di irritazione e scherno. Uno dei suoi classici da repertorio di "suocera inacidita".
«È troppo piccolo per impressionarsi e ancor meno per ricordare qualcosa» replicò con la solita sicumera, alzando il tono di voce.
«Okay. Motivo in più per non farlo venire qui» obiettai io, più stentorea.
Giuro su Dio, Micky, tua nonna mi irritava da morire con quell'atteggiamento di ostentata superiorità. Lo faceva continuamente. Tuo padre diceva sempre: "Discutere con mia madre significa che tu stai sbagliando e che lei deve gentilmente correggerti".
Be', aveva ragione. Tua nonna era piacevole come un attacco di dissenteria.
Comunque, presagendo una tempesta in arrivo annunciata da tuoni e scintille, tua zia Sandy s'intromise portando due bottigliette d'acqua minerale prese al distributore automatico dell'ospedale.
Ce le offrì dicendo: «Ehi, vi siete accorte che in questi posti fa sempre un caldo infernale? I termostati degli ospedali devono esser tarati sui 39 gradi. Sia d'estate che di inverno. Che cazzo...»
In effetti quella sboccata di tua zia aveva ragione. Nella sala d'attesa, come in tutti gli altri reparti dell'ospedale, il clima era torrido e secco come nel deserto del Kalahari. E le mascherine ffp2 certo non miglioravano la situazione.
Vista l'insofferenza, non solo ambientale, tua nonna Livia sfilò il cappotto e accettò la minerale. Abbassò la mascherina e ne ingoiò una lunga sorsata. Poi, appena dissetatasi, riportò la sua truce attenzione su di me.
«Avete bisogno di soldi?» mi chiese di punto in bianco.
Finsi di rifletterci per un momento.
«No, non ti preoccupare» le dissi alla fine. «C'è mio padre che ci aiuta.»
Tua nonna soffocò una mezza risata catarrosa e si rimise gli elastici della mascherina intorno alle orecchie. Non ha mai avuto una buona opinione della mia famiglia e degli aiuti, a suo giudizo scarsi, offerti da mio padre. Una cosa offensiva. Devo però ammettere che, nonostante il suo pessimo carattere, la sua arroganza, e soprattutto la sua invadenza, tua nonna Livia ci ha sempre aiutati moltissimo. Anche se tuo padre cercava sempre d'evitarlo. Diceva che farsi aiutare da sua madre era un po' come "indebitarsi con il diavolo".
«Ti ringrazio lo stesso per il pensiero» dissi cercando di ricacciarle in gola quell'odiosa risatina. «Ma, come ho già detto, io e Micky non abbiamo bisogno di nulla. Ho trovato lavoro presso l'amministrazione di una piccola azienda di Torino.»
«Tu? Sant'iddio! E di cosa ti occupi?»
«Buste paga.»
«E che cavolo ne sai tu di buste paga? Sei laureata in Lettere, che equivale a dire in niente. Non hai alcuna competenza per fare un lavoro del genere.»
Prima che scoppiasse la solita "rissa verbale", tra me e tua nonna, la porta della sala d'attesa si spalancò di colpo.
Era il dottor Vergari, il primario della terapia intensiva.
Affondò le mani nei tasconi del camice percependo una forte tensione. Poi mosse qualche passo dentro la sala, dove c'eravamo noi e qualche altro gruppetto sparso qua e là tra le sedie, in attesa di far visita ai loro familiari. A vederlo, il dottor Vergari era l'antitesi umana del reparto cupo e silenzioso che gestiva: un uomo piuttosto florido, dinamico, sempre sorridente e ottimista. Il suo faccione tondo e solare sapeva ridarti speranza anche a dispetto di ogni scura previsione.
Ammutolite e stanche, io e tua nonna restammo in attesa del suo vaticinio.
«Siete pronte?» chiese il primario con un sorriso aperto.
«Ovviamente, dottore» rispose tua nonna, alzandosi, per prendere il controllo della conversazione. «Ma prima vorrei farle qualche domanda. Giusto cinque minuti.»
«Prego» assenti il medico, scostando il polsino per dare un'occhiata all'ora.
«Senta, so che ne abbiamo già parlato» attaccò lei con un tono più morbido. «Però vorrei capire bene qual è la situazione clinica di mio figlio. Come sta, esattamente?»
«Be', come ho già detto, signora, le lesioni interne» spiegò il medico pazientemente «sono in via di guarigione. Durante gli ultimi controlli l'elettrocardiogramma non ha registrato né aritmie rilevanti né tachicardie. E la pressione arteriosa risulta ormai nella norma. Il fegato e il polmone destro, come vi ho già detto, sono stati ripuliti dai frammenti ossei delle costole fratturatesi nell'impatto e hanno del tutto recuperato la funzionalità. Le uniche incertezze che abbiamo, a tutt'oggi, riguardano l'articolazione della gamba sinistra e una possibile microlesione del lobo frontale.»
«Sta forse dicendo che non avete ancora capito se c'è una lesione cerebrale?» trasalii io facendo voltare gli altri visitatori nella sala d'attesa.
«Signora Corsari» riprese con calma il dottore, tamponandosi il sudore sull'ampia fronte. «Come sa, abbiamo praticato una ventricolostomia a suo marito per ridurre la pressione intracranica. Quindi abbiamo ridotto l'edema con dosi massicce di corticosteroidi e diuretici. Le procedure sono andate piuttosto bene. Siamo ottimisti, signora Corsari. Ma è passato troppo poco tempo per trarre delle conclusioni.»
«Sì, sì, d'accordo. E la TAC?» chiese tua nonna.
«È stata rifatta da poco.»
«Bene. E cos'ha evidenziato?»
«Non ha evidenziato danni fisici rilevanti. Anche l'elettroencefalogramma, effettuato dal nostro neurologo, non ha registrato particolari anomalie. Sembra esser tutto nella norma. Ma è ancora presto per cantare vittoria.»
«E questo cosa cazzo vorrebbe dire?» intervenne tua zia Sandy col suo linguaggio colorito da insegnante sinistroide da centro sociale.
«Voglio semplicemente dire» rispose il dottore con incrollabile compostezza «che avremo maggiori risposte quando Morgan si sveglierà e potremo sottoporlo a ulteriori test di verifica in merito ad apprendimento, capacità di linguaggio, riflessi, coordinazione e così via. È la normale routine nei sospetti casi di lesione cerebrale.»
A quel punto mi sembrò inutile porre ulteriori domande. Ma lo feci lo stesso.
«E riguardo alla gamba?» domandai.
Per un attimo, tua nonna mi squadrò come se fossi una povera pazza. Non era la prima volta e forse, in quella particolare occasione, non aveva tutti i torti.
«La gamba sinistra di suo marito» spiegò il primario «ha subito una rilevante neuropatia femorale. In seguito, sarà utile effettuare una elettromiografia completa e anche una risonanza del rachide lombosacrale per confermare la diagnosi. Ma di questo dovrete discuterne con l'ortopedico. Al momento posso dirvi che il danno c'è, ma che si può intervenire mediante stimolazione elettrica, terapia farmacologica, fisioterapia e anche con altri percorsi di trattamento.»
«Per ottenere un recupero completo?» chiese tua zia Sandy.
«È troppo presto per dirlo.»
«Ah, fantastico!» sbottai con un risolino isterico. «È troppo presto per dire questo, per dire quest'altro... Cristo santo! Insomma, cosa c'è di sicuro che può dirci adesso?»
Dopo un attimo di silenzio e un lungo sospiro serafico, il dottor Vergari, primario della Terapia Intensiva dell'ospedale, guardandomi, disse semplicemente...
«Posso dirle che suo marito Morgan Corsari è ancora vivo.»
"Ancora vivo". Fissai quelle parole nella mia mente e le feci diventare un semplice assioma di realtà, al pari del cielo azzurro e della pioggia bagnata. Mi dissi: d'accordo, Morgan Corsari, mio marito da sette anni e mezzo, è ancora vivo. Vivo e basta. Non era un atto di fede. Era realtà. Sarei entrata anch'io in quel fumoso limbo di persone che vivono giornate sempre uguali – quiete ma ripetitive – nella speranza prima o poi di un ritorno alla normalità. E l'avrei fatto non più pregando un dio onnipotente che non risponde mai, ma confidando in quella imprevedibile e casuale combinazione di eventi che da sempre determina il destino dell'uomo: la pura fortuna.
E giuro che continuai a ringraziarla di cuore, la fortuna, per una volta amica e non puttana come diceva tuo padre, mentre mi preparavo nella saletta antistante l'ingresso del reparto di terapia intensiva. Lì, io e tua nonna Livia, insieme al dottor Vergari, ci vestimmo in silenzio indossando camici sterili, calzari copriscarpa sterili, guanti sterili (dopo aver sanificato le mani) e infine delle maschere ffp2 nuove. L'imperversare dell'ennesima variante di Covid aveva reso quel rituale più lungo ed estenuante.
Una volta pronti sulla porta, mentre tua zia ci attendeva a "rosolare" in sala d'attesa, il dottor Vergari si girò un attimo per guardare me e tua nonna e fornirci ulteriori ragguagli. Ci disse che tuo padre era stato estubato il giorno precedente e che non vi era stata ipossiemia, con valori di saturazione dell'ossigeno sempre sopra i 90. Perciò la ventilazione meccanica era stata interrotta e a seguire erano stati tolti anche i sondini per l'alimentazione artificiale. Inoltre, ci informò che i farmaci erano stati ridotti gradualmente per interrompere il coma farmacologico e che tuo padre, già stimolato, aveva dato segni di reattività, aprendo anche gli occhi in un paio di occasioni.
«Signore, mi raccomando, tenete presente» disse infine il dottor Vergari aprendo la porta del reparto «che Morgan avrà difficoltà sia a muoversi sia a parlare. Respirerà molto piano e le sue reazioni saranno lente e tal volta confuse. Vi capirà a fatica.»
«Nient'altro?» chiese tua nonna Livia tornando al suo tono irritante.
«Certo» e il dottor Vergari si volse per guardarla da sopra il bordo della ffp2. «Per nessuna ragione dovete agitarlo o allarmarlo. Chiaro?»
«Chiarissimo» tagliai corto io.
Volevo soltanto rivedere tuo padre. E, nonostante la sua stronzaggine congenita, anche tua nonna Livia desiderava la medesima cosa.
Conclusi i ragguagli clinici e le direttive sulla nostra condotta, entrammo nel corridoio del reparto e lo percorremmo fino al posto letto di tuo padre, l'ultimo in fondo. Le postazioni erano suddivise da tendaggi color verde petrolio. Il clima era più mite, in quella penombra quieta, silenziosa, interrotta soltanto dal ronzio dei macchinari e dal sibilo dei ventilatori meccanici. In quello strano ambiente, Micky, potevi trovare la stessa pace che si trova in una chiesa, forse la stessa sacralità, le stesse preghiere.
«Avvicinatevi» ci esortò il dottor Vergari mettendosi su un lato del letto.
Tua nonna ed io ci accostammo sul lato opposto.
Accanto a tuo padre non c'erano più macchinari per la respirazione o per l'alimentazione meccanica, ma solo alcuni tentacoli di plastica che gli aghi ipodermici collegavano a delle vene bluastre in risalto sul braccio. Nelle flebo, appese lì vicino, vi erano forse delle soluzioni saline o qualcosa di simile. Non lo chiesi neppure.
I nostri occhi si fissarono subito sul volto spigoloso e pallido di tuo padre. Per un attimo, pensai che sembrava uno di quei Gesù in rilievo sulle croci lignee delle chiese medievali, quelli che hanno sempre un'espressione sfinita, logorata da un'infinita lotta interiore. Tuo padre sembrava proprio questo: un "povero Cristo in croce". Il volto rifinito, le palpebre annerite e infossate, la barba incolta che ricopriva le guance. Solo che al posto della corona di spine aveva una fasciatura di garze. Sarebbe potuto restar lì dormiente per secoli e secoli o risorgere da un istante all'altro. A completare quella specie di iconografia, io e tua nonna sembravamo le due Marie in attesa del miracolo.
E poi accadde... semplicemente.
Con tocco delicato, leggerissimo, il dottor Vergari toccò la mano di tuo padre sussurrandogli qualcosa e lui aprì pian piano gli occhi. Fù un attimo. E fù bellissimo.
I suoi occhi di foresta, quell'incrocio di marrone screziato di verde, ripresero luce a poco a poco, fissandosi prima su di me e poi su tua nonna. All'inizio, tuo padre parve un po' confuso, spaesato. Poi accennò un leggero sorriso, che nascondeva sofferenza e intorpidimento. Era un sorriso molto amaro. Ma, quando lo vidi, capii che era davvero vivo e che era davvero lui.
Mi chinai per dargli un bacio sulla guancia barbuta e tua nonna gli strinse la mano lasciando cadere qualche lacrima nera di rimmel sulla mascherina. Eravamo emozionatissime. Ma evitammo con cura di toccargli per errore la testa fasciata dalle bende. Nel mentre il dottor Vergari schioccò le mani guantate e si rilassò con un bel sorriso soddisfatto, come alla fine di un duro lavoro.
Sembrava andare tutto bene.
D'un tratto, però, tuo padre ci rivolse un'occhiata corrucciata, ansiosa. Poi si guardò intorno come se cercasse qualcosa. C'era una domanda urgente nei suoi occhi. Lì per lì non riuscii a capirlo. Poi, lui mi tirò bruscamente a sé e, con le poche forze che aveva, mi sussurrò una parola all'orecchio, una soltanto.
Tesoro mio, sai qual è stata la prima parola che hai detto quando hai cominciato a parlare? È stata "Papà".
E "Micky" è stata la prima parola che tuo padre disse quando risorse alla vita.
Matthew Arkham
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