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Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Autore: Gioacchino Rosa Rosa
Titolo: Lando Frandella e l'eredità di Federico II
Genere Umorismo
Lettori 2600 6 1
Lando Frandella e l'eredità di Federico II
Zero.

Di quel borgo antico che fu centro del mondo e passaggio di pellegrini per altri continenti... di quella sontuosa dimora dalle cui marmoree mura Federico II di Svevia, lo Stupor Mundi, dominò il reame... di quel luogo sicuro che fu Capitale dell'Impero dove la storia del mondo è divenuta tale... di quei luoghi di straordinaria bellezza circondati da fitti boschi, bagnati da vigorosi fiumi ove s'abbeveravano, per dissetarsi, nobili, viandanti e cavalieri di passaggio... di quei luoghi di caccia e pesca, di svago dei potenti, di quei luoghi ameni, ahimè, s'è perduta ogni sembianza, ogni traccia, ogni evidenza.
Ogni cosa che qui era, ora non è.
Ogni bellezza ormai è perduta, svanita, scomparsa,
dimenticata sicché oggi Fovea, granaio d'Italia e regina della Daunia, dimentica del suo passato e della sua grandezza, giace supina su sé stessa, addormentata.

Aria fritta.

Nei bazar del Quartiere Ferrovia il falso d'autore era letteralmente sparito dagli scaffali. Niente più Armani, Dolce & Gabbana, Prada o Louis Vuitton taroccati. Niente più borse griffate a trenta euro, niente più magliette con loghi esagerati e scarpe tacco 12 con lustrini e fiocchetti dorati.
Nonostante il sindaco di Foggia, Lando Frandella, si fosse fatto pubblico vanto di questa grande conquista attribuendola all'efficienza dell'apparato burocratico amministrativo comunale, non era stata certo una retata della Polizia
municipale a causare il ritorno della legalità nel quartiere.
Quella incredibile inversione di tendenza non era altro che il frutto della schizofrenia del tempo che, schifando l'ordine costituito delle stagioni, aveva optato per un clima random che aveva costretto i foggiani a rinunciare alle griffe taroccatee suggerendogli di vestire a cipolla, con strati e strati di abiti indossati l'uno sull'altro, facili da togliere o sovrapporre a seconda dell'iperbolico mutare del clima.
Per analizzare lo strano fenomeno atmosferico, l'Istituto Superiore di Geologia di Roma inviò a Foggia due scienziati di chiara fama i quali, dopo accurate verifiche, esclusero
categoricamente di trovarsi di fronte a una catastrofe naturale e furono assolutamente concordi nell'individuare, come causa di quelle improvvise mutazioni climatiche, le emissioni nocive di kebab che, oltre ad appestare l'aria del quartiere,
trapanavano l'ozono rendendolo un colabrodo.
Gli effluvi nauseabondi sprigionati dai girarrosto, unti, spietati e insensibili come SS nazisti al soldo di Hitler, irrispettosi dei buoni odori di basilico, prezzemolo e sugo della domenica, tristemente soppiantati da spezie piccanti, cipolla e carne rosolata, si diffondevano sin dalle prime ore del mattino in ogni direzione: s'infiltravano nelle case, percorrevano i corridoi, entravano nelle stanze, si abbarbicavano alle tende, impregnavano i divani, si aggrappavano agli abiti e infine concludevano il loro tour appestante andando a stamparsi, unti e appiccicosi, sulle finestre e sulle vetrine dei negozi sfitti del Quartiere Ferrovia.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità, chiamata in causa dopo l'inspiegabile caso dell'anoressico che pesava 220 chili, nel confermare la tesi dei due scienziati, precisò che gli effluvi di kebab si nutrivano di ossigeno e azoto e rilasciavano nell'aria un particolare composto volatile di trigliceridi e colesterolo che faceva ingrassare chiunque per il semplice fatto di averlo inalato.
Nonostante l'intensa notorietà che quello strano fenomeno diede a quei tempi alla città di Foggia, nessun giornalista di grido prese mai veramente sul serio l'ipotesi di andarci di persona per verificare cosa mai stesse succedendo a quella città, un tempo splendida e fulgente, che Federico II, lo Stupor Mundi, aveva definito luce dei suoi occhi ed eletta 'inclita sede Imperiale'.
Nessuno, tranne Berta Gambardella.

FEDERICO II E LA DOMUS SOLLACIORUM

11 dicembre 1250 d.C.
«Che ragion d'essere avrà mai codesta insulsa neve, o mio Signore, se non il capriccioso vezzo di confondere e disperdere i viandanti e di giocar di fino con il loro fato gelandogli le carni e azzoppandogli i cavalli? Eppure nevica. Nevica da ore, Sire. Nevica così intensamente sul vostro Impero e sulla Sacra Corona che se un Dio Creatore esistesse davvero, lassù nel cielo, sarebbe senza meno un Dio irrispettoso di Vostra Grazia l'Imperatore che tanto ha a cuore la modernità e la civiltà del mondo».
«Venite al dunque, Capitano», disse sbrigativo Federico II di Svevia al comandante del drappello ch'era di ritorno dall'esplorazione. «Siate diretto, senza disperdervi in leziosi giri di parole».
«Come desiderate, Maestà. La verità è che il sentiero che conduce al Castello di Lucera è sepolto per metri sotto la neve. E per di più il cielo è così plumbeo che non ci si orienta né con il sole né con stelle».
«Ci siamo dunque persi, soldato?»
«Sì, o mio Signore».
«Stai quindi impunemente affermando, soldato, che l'uomo più potente del mondo, Federico II Duca di Svevia, Re di Sicilia, Re dei Romani, Imperatore del Sacro Romano Impero e Re di Gerusalemme si è perso a poche miglia dal suo Palazzo Imperiale in una pianura in cui quando piove l'acqua ristagna per mancanza della benché minima pendenza?»
«Sì, o mio Signore».
«E allora trema, soldato, perché se questa notizia dovesse giungere a conoscenza di un qualsiasi essere vivente al di fuori dei presenti, giuro che ti mozzerò la lingua e la darò in pasto ai corvi».
«Potete contare sulla mia assoluta discrezione, Sire», disse abbassando gli occhi il soldato.
«E ora lasciatemi solo. Arretrate!», ringhiò Federico mentre il suo stomaco era in fiamme per la dissenteria.
Nonostante si sentisse svenire, Federico rimase con grande sforzo ritto in sella, con il capo fiero rivolto al nulla dipinto di bianco, divagando con la mente su quanto gli sarebbe piaciuto non dover dar conto al mondo intero di ogni sua azione, di ogni suo mal di pancia che, tra le altre cose, era la sua più attuale preoccupazione. Certo, far di mestiere l'Imperatore nel tredicesimo secolo non era quel che si può comunemente definire una passeggiata di piacere ma, Dio Santo, aver rango di Re aveva comunque vantaggi che andavano ben oltre la fama e la gloria di chi riposa sui libri di storia! Per dirla in una, un Re non doveva balzelli a chicchessia ma poteva chiederli, pretenderli e addirittura imporli. E nessuno, nessuno mai, avrebbe osato neppure pensare di privare il suo Re del piacere d'addentare un arrosto di cinghiale a mezzodì o di sorseggiare un piatto di minestrina in brodo al calar della sera raccolto al calduccio del camino. E questo, anche se fuori dalle mura si morisse di gelo, di peste o di colera.
Un Re che fosse un Re poteva togliersi lo sfizio di far
decapitare seduta stante chi gli mancava di saluto o di rispetto e, se gli aggradava, di palpeggiare impunemente una villana o una gran dama senza dover dar di conto né a giudici né a mariti e tantomeno a li gendarmi. Un Re poteva decidere da solo quando e se andare a caccia. Con il falco, senza il falco, a caccia di lepri, di cinghiali o di leoni e andar giù duro con donne di malaffare ed essere nel contempo galante con le madame maritate. Poteva fare il bagno nell'acqua fresca e miscelarla a quella calda, interrogar scienziati e domandar loro del mondo, dei viaggi e delle stelle, imparare nuove lingue, ascoltar poeti, danzare con donne senza veli, cantare a squarciagola, ridere con il giullare, tirar con l'arco, far la pipì per terra e persino far la guerra per futili motivi. Tutte piccole, piacevoli distrazioni. Ma stare con un piede in Germania e l'altro in Sicilia dovendo contemporaneamente tener testa a Papi impiccioni, nemici giurati, amanti capric-ciose e figli traditori, era veramente una gran rottura di coglioni.
Per questo, su consiglio di sua moglie Bianca Lancia, che stanca delle sue intime pulsioni voleva toglierselo di torno per qualche giorno, Federico aveva deciso di concedersi una breve vacanza in quel di Fovea, luce dei suoi occhi. Ma Federico II di Svevia aveva sbagliato tempo e luogo. Neppure se avesse optato per le Alpi Bavaresi sarebbe potuto incappare in una tormenta di neve così violenta e devastante.
«In sella, soldati», aveva detto quella mattina alla vista della tormenta il grande Imperatore. «Non siamo mica donnicciole da scoraggiarci per il meteo avverso!»
E già, Federico era un uomo forte e coraggioso, una vera roccia. Avrebbe affrontato persino l'Himalaya in infradito e perizoma se non fosse stato per quel terribile attacco di dissenteria che, qualche ora dopo la partenza, gli aveva fatto rimangiare tutta la sua spavalderia. Ah, se avesse avuto un medico con i contro cazzi al suo servizio ora non starebbe scacazzando nell'armatura in preda a sudori e febbre alta! Invece a lui era toccato come cerusico Giovanni da Procida che, a suo dire, aveva tanta confidenza con la medicina quanta può averne di ferrare un cavallo zoppo una damigella di corte orba da un occhio.
Cosa fare dunque? Andare avanti verso la meta o suonar ritto la ritirata? Ormai Federico di Svevia era allo stremo delle forze. Aveva tenuto duro finché aveva potuto, ma ora, ogni barriera d'orgoglio stava cedendo di fronte al suo dolore.
Federico II di Svevia, l'uomo più potente del mondo, lo Stupor Mundi, l'Imperatore del Sacro Romano Impero, il Re di Sicilia, di Germania e di Gerusalemme, infreddolito, lurido, con l'armatura cigolante e la febbre altissima, si era cagato sotto e si sentiva per la prima volta impotente, piccolo e sconfitto. Eppure cosa mai aveva mangiato che gli aveva potuto far così male? Il fido Berardo, cuoco sopraffino, aveva
preparato come al solito due cosette leggere per il viaggio: lepre arrosto, allodole, fagiani in salmì... pollo alle mandorle con il latte... anguille di Lesina fritte senza farina e affogate in aceto di vino bianco... zuppa di funghi all'aglio trito con limone e alici, fogliemmiscke con cotenna e una mezza mela cotta. La mela cotta! Ecco, la mela cotta. Sicuramente la colpa della dissenteria era stata di quella maledetta mela cotta alla quale non era abituato.
Accasciato sul suo fido destriero, dilaniato dai dolori
provenienti dalle viscere infiammate, Federico fece cenno al cerusico di avanzare al suo cospetto. Il cerusico allentò le redini del suo somaro, lo spronò con i talloni e si affiancò al suo Re.
«Cosa c'è, mio Imperatore?»
Federico, con le labbra tumefatte e la lingua dura come un ghiacciolo, si sforzò di rispondere. «Il mio tempo si sta esaurendo, Giovanni. Portami alla fortezza di Lucera».
«Lucera? La vedo dura, mio Signore. Troppo lontana. Siamo, a mio parere, più o meno a metà strada tra Fovea e Torre Maggiore e comunque assai lontani dal sentiero che invocate. Tuttavia, lassù sulla collina», riferì il cerusico indicando un punto indefinito nell'orizzonte bianco di fronte a loro, «avete una bella domus sollaciorum, che potrebbe fare proprio al caso vostro».
«Che tengo io?», rispose Federico che non aveva ben inteso.
«Un pied-à-terre, mio Imperatore, una garçonnière».
«E che sarebbe questa garçonnière?»
«Un monolocale, mio Signore, un appartamentino discreto, un po' fuori mano, lontano dagli occhi di imperatrici e amanti dove sollazzarsi e riposarsi dalle battute di caccia».
«Boh, non me lo ricordo sto monolocale. Ho costruito più castelli e casali io che chiese e monasteri il Papato. Ma è accogliente almeno 'sto pied-à-terre?»
«Certo che sì. È una figata, Maestà. 19 metri per 30! Quasi seicento metri quadri scorza e tutto, con terrazza panoramica e doppio camino! Vedrete, vi piacerà un casino».
«Ma sei sicuro di riuscire a trovare la strada per questo posto, sol da te conosciuto, nonostante la tormenta? Orsù, non perdiamo altro tempo, indicami ove si trova esattamente questa magione sollazzosa!»
«Laggiù in fondo, da qualche parte sull'estremo versante ovest della collina dello Sterparone delimitato a nord dal Canale della Bùfola e a sud da un piccolo corso d'acqua che i villici chiamano il Canaletto».
«N'agghie capite nind, Giuà, parla potabile!» sbottò l'Imperatore. «Quello che voglio sapere è come si chiama questo posto. Lo terrà pure un nome, per la miseria!»
«Ah, e lo potevate dire prima Maestà! Si tratta di Castel Fiorentino».
«Castel che?»
«Fiorentino».
«Castel Fiorentino? No, no no. Ma che sì pàcce, Giuà, non se ne parla nemmeno», fece l'Imperatore scuotendo la testa come un ciuco che tenta di liberarsi dalla morsa. «Per l'amor di Dio, mi dice male Castel Fiorentino! Lo sai anche tu, Giovanni, che Messer Michele Scoto ha predetto leggendo le viscere d'agnello che sarei morto in una città sub fiore per cui, io, in una città sub fiore, non ci voglio mettere neppure piede!»
«Sub che?»
«Fiore, sub fiore Giuà; insomma una città il cui nome contiene la parola fiore. Non ho nessuna intenzione di tirare le cuoia a Castel Fiorentino: Chedè chedè, abbùn abbùn, e che so' stùbbede?»
«Allora preferite morire qui in campagna, mio Imperatore? No perché, dico, se restiamo qui impalati, moriamo congelati di sicuro».
«Ma la profezia di Michele Scoto...» protestò l'Imperatore.
«Non date retta a quell'imbonitore, Maestà, che con queste favolette e profezie si guadagna la stozza a casa vostra invece di andare a dipingere gli artigli delle oche innanzi al pronao della Civica Villa».
«Tu dici?»
«E dico sì! Queste sono credenze da servette! Voi siete un Imperatore. Sentite a sto' fesso che vi vuole bene: Meglio proseguire per Fiorentino. Vedrete! Un bel bicchiere di Nero di Troia e un buon arrosto di cinghiale vi rimetteranno al mondo».
«Ma allora mi vuoi vedere veramente morto? Vino, cinghiale? A me ci vuole un bicchiere di bicarbonato e basta. Ci starà il bicarbonato a Fiorentino?»
«E che ne so io, Signore mio bello, e mica sono il
dispensale! L'unico modo per sapere se a Fiorentino tenete una riserva di bicarbonato è andarci. Fatevi coraggio che peggio di così non potrete certo stare».
Quando a notte fonda il drappello al seguito di Federico II di Svevia varcò la porta di Castel Fiorentino, ad attenderli non c'era nessuno. La neve, adagiandosi sulle fiaccole che
illuminavano gli stretti vicoli, le aveva inumidite e spente mostrando il borgo più deserto e spettrale di quanto non lo fosse in realtà.
Il Puer Apuliae, ridotto a uno straccio, non aveva più nulla di regale nel portamento e barcollava come un ubriaco. Due scudieri lo aiutarono a scendere da cavallo al quale restò appoggiato non avendo sufficiente forza nelle gambe da muovere un passo se non accompagnato.
Richiamata dal trambusto sotto al palazzo, una domestica traccagnotta e baffuta, brandendo una fiaccola come se fosse un'arma, si affacciò al portone della domus per verificar cosa stesse succedendo. Quando le fu detto che quell'uomo in pessime condizioni era il suo Imperatore, chiamò gli altri domestici perché fosse aperto il portone per far accomodare cavalieri e cavalli nello stanzone a piano terra. Federico fu invece trasportato a braccia nella magione, al piano superiore.
Vi erano due stanze, nella domus, ciascuna con un grosso camino. La prima era destinata a dispensa, cucina e dormitorio per la servitù; la seconda, più grande, con ampie finestre che si affacciavano sul borgo, era la magione dell'Imperatore.
Un grande letto a baldacchino, con drappi di seta gialla sui quali era disegnata un'aquila nera, bloccava l'accesso al portone di ferro che dava alla torre e, di lì, alla terrazza. Per il resto vi erano pochi arredi, più che altro credenze, trofei di caccia, panche e un grosso tavolo rettangolare.
«Vi faccio preparare un bel bagno caldo - fece il cerusico – e vedrete che una volta ripulito e rinfrescato vi sentirete subito meglio».
Al comando del cerusico, le due domestiche riempirono dalla cisterna dei grossi recipienti di acqua e li misero sul fuoco. E quando questa fu calda abbastanza da inondare la stanza di vapore, la versarono nella tinozza regale insieme a delle essenze profumate che comunque non riuscirono a coprire il tanfo nauseabondo che proveniva dal corpo di Federico. Una volta immerso nella tinozza fino al collo e scrostato ben bene dalle inservienti, Federico si stese sul letto coperto da una spessa coperta di lana ben consapevole che non era vittima di un malore passeggero, ma che era prossimo alla fine.
«Voglio fare testamento», disse a un tratto con voce flebile ma decisa Federico. «E voglio che al mio capezzale, per testimoniarlo, venga tutta la corte del Sacro Romano Impero».
«Madonna e che esagerazione», fece il cerusico. «E che amma fa', l'albergo Cicolella? Dopotutto, questa è solo una stanza e non una sala delle udienze! Non potrebbero bastare il notaro Pier Primiano delle Vigne e un paio di testimoni per fare un testamento con i controcazzi?»
«Non mi contraddire, Giovanni, altrimenti la tua
decapitazione sarà al primo punto dei miei desiderata. E ora voglio dormire. Levatevi tutti dai piedi».
«Con piacere», disse il cerusico sventolando aria sotto al proprio naso mentre arretrava con un inchino. Di malavoglia il cerusico chiamò il falconiere e gli disse «Uagliò, il falco Imperiale sta di genio?»
«Oggi si, cerusico. Si è svegliato bene».
«Sarà capace di portare un messaggio?»
«E' il mestiere suo. È orfano. È stato allevato da una coppia di piccioni viaggiatori».
«Allora dovrai mandarlo a Fovea con il biglietto che ti sto per consegnare. E assicurati che il falco faccia il suo dovere».
«Contate su di me, cerusico», concluse il falconiere
incrociando le dita, dato che il falco reale era una checca isterica e bisognava prenderlo con le pinze prima di affidargli un incarico.
Al calar del sole del 13 dicembre 1250, la corte del Sacro Romano Impero si era riunita al capezzale di Federico II a Castel Fiorentino. Seduti in prima fila v'erano i fedelissimi del Re: Bernardo Arcivescovo di Palermo; Riccardo di Montenero, Gran Giustiziere della Magna Curia; il figlio prediletto di Federico, Manfredi; il responsabile delle scuderie imperiali Pietro Ruffo; il cugino dell'imperatore, Riccardo, Conte di Caserta e, ovviamente, il cerusico Giovanni da Procida e Pier Primiano Delle Vigne, il notaio designato dall'Imperatore.
Il notaio, armato di calamaio e una lunga penna d'oca, appollaiato sull'inginocchiatoio vicino al letto dell'imperatore, con un cenno del capo fece capire a Federico che era pronto a raccogliere le sue ultime volontà.
«Scrivete, notaro».
«Che cosa devo scrivere?», domandò Pier Primiano Delle Vigne cadendo dalle nuvole.
«Quel che vi detto».
«Ma voi non avete detto ancora niente, Maestà!»
«Dico, tenetevi pronto».
«Sono pronto».
«E allora scrivete».
«Che cosa?»
«Ma mi volete pigliare per il culo, Pier Primiano?»
«Per l'amor di Dio, Maestà, nelle vostre condizioni quello è proprio l'ultimo posto in cui vi vorrei pigliare».
«Bene, allora fate il lavoro per il quale siete stato pagato».
«Veramente non sono stato ancora pagato».
«Lo sarete. Non mi fate incazzare».
«Attendo un vostro cenno, Maestà».
«Allora ascoltatemi bene. Per mettere l'animo mio in pace e garantirmi la benedizione del Papato per il mio ultimo viaggio, ordino che vengano restituiti alla Chiesa e ai Templari tutti i beni che gli sono stati sottratti durante il mio Regno».
«Ummadò!»
«Non commentate, scrivete!»
«Come volete Voi».
«Ordino inoltre, che nessuna colletta dovrà più essere fatta per il Regno e che tutti i prigionieri, tranne i traditori e gli infami, dovranno essere liberati».
«Kapdecazz!»
«Ancora? Scrivete!»
«Si vabbè, ma andiamo al sodo, Sire, queste so' cose
secondarie, ai figli vostri che gli lasciate?»
«T'è sta' nu poco citt, pe' piacer?»
«La faccia mia sotto ai piedi vostri, Maestà!»
«Scrivi: 'Ordino ai miei sudditi di inginocchiarsi di fronte al mio successore, al nuovo Imperatore, Corrado di Svevia, mio primogenito, fatti salvi i lasciti per i suoi fratelli minori; il giovane Manfredi, appena diciottenne, per le sue doti di poliglotta e grande esperto di dialetto Foveano, avrà la reggenza dell'Italia e della Sicilia per conto del fratello maggiore che sta in Germania e che non è che pòte fa' sott e sòpe ‘na continuazione che poi il cavalo si sdrena. Inoltre, giusto perché non faccio preferenze, sempre a Manfredi regalo pure Monte Sant'Angelo e Taranto che li tengo sfusi. A mio figlio Enrico, che si crede un padreterno, dono il Regno di Gerusalemme ove si potrà sfiziare con il Corano; mentre a suo figlio Federico, che porta lo stesso nome mio e quindi è raccomandato di ferro, dono l'Austria'. Avast, ho finito, non tengo più proprietà immobiliari».
«E a tutti gli altri figli?»
«Nind».
«Nind nind nind?»
«Meh, vabbù, ‘na cusarell de sold appedùn. Farete in
questo modo, dividerete i soldi liquidi tra tutti i miei figli tranne che al bastardo Sipontino Silvo».
«E a lui non volete lasciare proprio nulla?»
«No».
«E perché se non sono indiscreto?»
«Perché lui odia ciò che amo, disprezza la luce stessa dei miei occhi, la mia amata Fovea. Da qui è fuggito per trasferirsi da un lontano zio di Göppingen. Lui l'ha sempre disprezzata questa città e se proprio devo lasciare qualcosa pure a lui, gli lascio la mia maledizione: «Che la sua stirpe non possa separarsi mai da Fovea e che da questa si senta attratta come un'ape dal miele anche se di Fovea non dovesse rimanere che un solo campanile in piedi».
«Nient'altro, Maestà?», domandò Pier Primiano. «Maestà? Maestà? ‘U Gesù, cerusico, venite a vedere pure voi, il re non parla più».
«I morti non parlano, caro Pier Primiano», sentenziò il Cerusico dopo aver tastato il polso del suo sovrano. Mettete voi uno scippo sul testamento al posto del re, e noi confermeremo d'averlo visto firmare di suo pugno».
Gioacchino Rosa Rosa
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