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Writer Officina Blog
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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa,
teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana
di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, Non ora, non
qui, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri
sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese,
swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale
alcune parti dellAntico Testamento. Vive nella campagna romana dove
ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A
grandezza naturale", edito da Feltrinelli. |

Patrizia Rinaldi si è laureata in Filosofia all'Università
di Napoli Federico II e ha seguito un corso di specializzazione di scrittura
teatrale. Vive a Napoli, dove scrive e si occupa della formazione dei ragazzi
grazie ai laboratori di lettura e scrittura, insieme ad Associazioni Onlus
operanti nei quartieri cosiddetti "a rischio". Dopo la pubblicazione
dei romanzi "Ma già prima di giugno" e "La
figlia maschio" è tornata a raccontare la storia
di "Blanca", una poliziotta ipovedente da cui è
stata tratta una fiction televisiva in sei puntate, che andrà in
onda su RAI 1 alla fine di novembre. |

Gabriella Genisi è nata nel 1965. Dal 2010 al 2020,
racconta le avventure di Lolita Lobosco. La protagonista è
unaffascinante commissario donna. Nel 2020, il personaggio da lei
creato, ovvero Lolita Lobosco, prende vita e si trasferisce dalla
carta al piccolo schermo. In quellanno iniziano infatti le riprese
per la realizzazione di una serie tv che si ispira proprio al suo racconto,
prodotta da Luca Zingaretti, che per anni ha vestito a sua volta proprio
i panni del Commissario Montalbano. Ad interpretare Lolita, sarà
invece lattrice e moglie proprio di Zingaretti, Luisa Ranieri. |
Altre interviste su Writer
Officina Magazine
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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |

Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |

Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
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Il suono della tua luce
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Deboli raggi di sole accarezzavano le strade di Bergen, mentre Kristine si apprestava a chiudere il negozio. Il cielo si era schiarito solo nel tardo pomeriggio, dopo una consueta giornata di pioggia. La donna era tornata nella sua città natale da meno di un anno e lavorava come commessa da un mese appena, nel celebre quartiere di Bryggen. Nei dieci anni precedenti aveva esercitato la professione di avvocato ma, in fondo, sapeva che non ce l'avrebbe fatta per troppo tempo a reggere una vita che stava andando a rotoli e a svolgere un lavoro che richiedesse tanta lucidità, un'infinità di sicurezza nei propri mezzi e una grande dose di passione. Così, coerente con sé stessa e con i suoi sentimenti, mollò tutto e, all'alba dei trentasette anni, abbandonò la sua professione. Si era ripresentata a casa dei suoi genitori senza preavviso, una sera d'inverno, portandosi dietro un dolore profondo, che non era mai riuscita a raccontare del tutto. Suo padre, il giudice Gunnar Larsen, era rimasto profondamente dispiaciuto. Aveva sempre sperato che la figlia avesse una carriera simile alla sua e la reputava davvero capace nel suo lavoro. Nonostante ciò, aveva rispettato la decisione della ragazza. Sua madre Ruth, invece, era stata molto comprensiva con lei, proprio come la figlia si aspettava. Per cui, i rapporti con loro erano decisamente distesi. Kristine aveva vissuto a Stavanger, a circa duecento chilometri a sud di Bergen, per una decina d'anni. Si era lasciata alle spalle una brillante carriera d'avvocato, oltre a una sofferenza dell'anima che però la tormentava ancora, di tanto in tanto. Dopo la lunga esperienza lontana da casa, non le andava di ritornare a vivere coi genitori, né di rinunciare alla propria indipendenza. Era riuscita a mettere scrupolosamente da parte del denaro, consapevole di andare incontro a un periodo in cui avrebbe voluto fare affidamento soltanto sulle sue forze. Passato qualche mese di pausa che si era concessa per riprendersi dagli strascichi della sua vecchia vita, la donna era stata assunta in uno dei tanti negozi di Bryggen, il quartiere più caratteristico e famoso della città, che accoglieva centinaia di turisti ogni giorno, pronti a visitare la “capitale dei fiordi”. Aveva cercato i più svariati tipi d'impiego, in quei mesi, e un giorno la fortuna le era andata incontro. Si era imbattuta per caso, in un caffè, con Fredrik Magnussen, suo ex compagno di scuola e adorato amico d'infanzia, nonché proprietario di un negozio di souvenir e articoli da regalo. Freddy, come l'aveva sempre chiamato lei, avrebbe dovuto assumere una commessa di lì a qualche settimana. Aveva tre dipendenti, ma una di loro sarebbe partita per Londra. Kristine aveva accettato la proposta del suo amico senza nemmeno pensarci un attimo. L'idea di lavorare in quel luogo che le era sempre stato caro le piaceva. Per di più, non ci vedeva nulla di male in questo. Il fatto che fosse un avvocato non le impediva di poter svolgere un lavoro più umile. Un paio di settimane dopo l'incontro con Fredrik, aveva trovato un appartamento in affitto poco distante dal negozio e, anche in questa circostanza, la dea bendata era stata molto generosa con lei. Le cose si stavano mettendo bene. Dopo anni di frustrazioni e sofferenze, la vita le stava porgendo finalmente la mano. C'era un dettaglio in particolare a farla sentire al posto giusto. Il negozio di souvenir, “Heim Fred”, era solo una delle tante attività della famiglia Magnussen e occupava solamente il piano terra. Al primo piano c'era una sorta di magazzino, mentre il secondo piano, al momento, era vuoto. I genitori di Fredrik erano titolari di diverse attività commerciali e avevano qualcosa in cantiere, anche se per ora era uno spazio inutilizzato. La vera gioia di Kristine si trovava nella mansarda: un pianoforte, appartenuto ai bisnonni del suo amico, tutto per lei. Fredrik la conosceva fin troppo bene e gliel'aveva mostrato di proposito. Così, la nuova commessa si fermava a suonare il piano ogni volta che poteva, vale a dire quando le due colleghe non erano nell'edificio. A volte, insisteva per rimanere a chiudere il negozio o domandava a Fredrik di poter lavorare in fasce orarie che le avrebbero permesso di rimanere sola. Non voleva che le altre sapessero di questa sua passione che considerava viscerale e intima. Era quello che avrebbe voluto fare fin da ragazzina ma che non aveva avuto il coraggio di sognare. Studiare musica l'attirava, adorava suonare il pianoforte, ma il pubblico la terrorizzava e la paura di esibirsi di fronte a qualcuno era stata più forte del suo amore. La sua emotività e la sua timidezza avevano avuto la meglio sul suo indiscutibile talento. Quella sera di metà settembre, mentre stava per chiudere il negozio, le sembrò di udire il suono del piano, del suo piano. Non poteva esserne sicura, poiché a Bryggen non c'era mai silenzio. Il porto, il mercato del pesce, il chiacchiericcio dei turisti che passeggiavano rendevano quel quartiere sempre vivo. Pensò, per un attimo, di essere talmente innamorata del pianoforte da sentirlo dentro di sé. Eppure, riuscì a distinguere chiaramente una melodia conosciuta in tutto il mondo e che per lei era particolarmente familiare. Riaprì la porta del negozio, fece qualche passo e si affacciò sul lungomare, ma quelle note si allontanarono fino a scomparire. Rientrò e richiuse a chiave, si mise ad ascoltare attentamente, quasi trattenendo il respiro. Percorse tutto il locale e si diresse verso la porta interna che l'avrebbe portata alle scale. Iniziò a salire senza troppa fretta, incuriosita e attratta. Si fermò al primo piano per un breve istante. Da lì poteva sentire quella musica ancora meglio. Ne era sicura, veniva dalla mansarda. Qualcuno stava suonando quello che considerava il suo pianoforte in un luogo che, a quell'ora, sarebbe dovuto essere vuoto. Fredrik era l'unico della sua famiglia a entrare in quell'edificio, ogni tanto, però non saliva mai lassù. Inoltre, non aveva mai imparato a suonare nessuno strumento, era stato sempre totalmente negato fin da bambino. Chi poteva esserci, dunque? Kristine salì quei gradini sempre più lentamente, ora con timore, ma i suoi dolci occhi verdi erano impazienti. Si avvicinò alla porta, notò che era socchiusa e che la luce era accesa. Afferrò la maniglia, lasciò passare qualche secondo, poi aprì. Con sua enorme sorpresa, vide qualcuno che non si aspettava proprio d'incontrare. Riconobbe immediatamente, seppur con incredulità e nonostante il tempo passato, il profilo di quel giovane viso, quel capo chino, quella bionda coda di cavallo che sfiorava le spalle. «Marianne!» Quelle note soavi si fermarono di colpo. «Marianne! Che... Cosa ci fai tu qui dentro?» domandò con stupore. Un istante dopo, due occhi grigi e fieri si soffermarono sul volto di Kristine e, finalmente, con un sorriso, l'intrusa riuscì a dire, schiarendosi la voce: «Ehm... Ciao, zia Kristine».
Marianne era l'unica figlia di Amanda, la sorella maggiore di Kristine. Le due donne non si parlavano da molto tempo. Amanda, di otto anni più grande, aveva studiato all'Università di Oslo, dove aveva conosciuto Erik. Poco dopo era rimasta incinta e la coppia aveva deciso di trasferirsi a Bergen, non appena fosse nata la bimba e suo padre avesse trovato un nuovo lavoro. Erik aveva terminato i suoi studi in medicina e da qualche mese stava muovendo i primi passi in una rinomata clinica di Oslo. Era un brillante, giovane medico e non aveva impiegato molto tempo a trovare un buon posto a Bergen. Amanda voleva i suoi genitori vicino e lui, seppur sacrificando l'ottima opportunità capitatagli a Oslo, l'aveva accontentata. Anche lei si era da poco laureata in matematica, ma in quel momento non aveva nessun impiego. Quando il Dottor Erik Solberg e Amanda erano arrivati a Bergen con la piccola, Kristine era al primo anno di Università. Una volta laureatasi in Legge all'Università di Bergen, si era trasferita a Stavanger per lavoro e tornava a casa ogni volta che poteva. Non aveva troppi problemi a guidare per quattro ore e mezzo buone, percorreva quei duecento chilometri col cuore pieno di gioia, soprattutto durante le festività natalizie. Proprio durante il Natale di otto anni prima, Amanda aveva inspiegabilmente e deliberatamente ferito la sorella con le peggiori parole che una donna potesse tollerare. Da quel giorno non si erano più viste. Il Dottor Solberg aveva deciso di ritornare a Oslo con la famiglia per lavoro e Kristine era tornata subito a Stavanger, dopo le vacanze. Marianne aveva solo dieci anni, all'epoca, e i suoi genitori non le avevano mai fatto capire davvero cosa fosse successo. Ora, la sua famiglia era ritornata a Bergen solo da un paio di mesi, perciò Kristine non aveva molta confidenza con sua nipote. L'aveva lasciata che era una bambina, adesso era una diciottenne. Dopo un breve momento d'imbarazzo, la donna provò a dire qualcosa a Marianne, con una certa difficoltà. «Come mai qui? Da dove sei entrata?» «Dal negozio» rispose prontamente la giovane, quasi con tono irrisorio. «Ma... Io non... non ti ho vista». «Lo credo bene, eri impegnata a parlare con un gruppo di turisti italiani» ribatté la nipote, ancora con quell'aria che ostentava fin troppa sicurezza. «E sei venuta quassù senza dire nulla? Avrei potuto chiuderti dentro. Io stavo per andarmene, il negozio è chiuso». «No! Sapevo che mi avresti sentita». Questa volta abbassò gli occhi e lasciò intravedere un minimo di disagio. Kristine non riusciva a comprendere, era disorientata. Le sembrava di capire che sua nipote fosse andata fin lassù solo per attirare la sua attenzione. Prima che sua zia potesse porle un'altra domanda, la ragazza si schiarì nuovamente la voce, cercando di riacquistare la spavalderia di prima. «Frequento spesso Bryggen e tante volte mi è capitato di passare qui davanti, passeggiando sul lungomare. Una sera di due settimane fa, quando tutti i negozi erano già chiusi, ho sentito che qualcuno stava suonando il pianoforte. Precisamente, lo stesso brano che stavo strimpellando io poco fa. Si sentiva a malapena, allora mi sono messa ad ascoltare con attenzione e mi sono seduta su una delle panchine qui sotto. Ero curiosa di sapere chi fosse, a suonare. Ho aspettato qualche minuto, poi la musica è finita, ho visto la luce in questa mansarda spegnersi e poco dopo ti ho vista uscire. Ho capito che eri tu, a suonare». Marianne raccontò tutto senza prendere fiato, come a volersi togliere un gran peso. Nel frattempo, le sue guance pallide si colorarono di un rosso leggero. Kristine era quasi stordita, enormemente sorpresa da quella schiettezza con cui sua nipote le parlava. Da quel Natale di otto anni prima, non avevano più avuto l'opportunità di chiacchierare né di vedersi. «Mi hai presa un po' alla sprovvista» disse impacciata la donna. Poi ricominciò a parlare cercando in sé più risolutezza. «Quindi, tu sapevi che quassù c'è questo pianoforte e sapevi che io mi fermo a suonare. Perché non mi hai chiamata, quella sera che mi hai vista?» «Mi vergognavo. Non volevo passare da stalker. E poi... Io non... non sapevo nemmeno se mi avresti salutata». Stavolta la giovane arrossì del tutto e abbassò nuovamente il suo sguardo furbo e tenero. Adesso il disagio dentro di lei era evidente. «Perché non avrei dovuto salutarti?» le chiese Kristine, pur sapendo bene il motivo di quel comportamento. «Perché tu e mia madre non andate d'accordo e non so cosa pensi di me». La ragazza aveva ancora lo sguardo rivolto verso il basso. Sembrava avesse paura di guardare sua zia in faccia. Kristine fece un lungo sospiro. «Ascolta, Marianne: è vero che io e tua madre abbiamo litigato, ma tu non c'entri niente. Quindi non devi avere paura di me e del mio giudizio, ok?» Le parlava dolcemente, come si parla a un bambino che ha paura di essere sgridato per aver combinato qualche disastro. In effetti, in quell'istante, sua nipote sembrava davvero una bimba indifesa. Nel giro di pochi secondi, era passata dall'avere un tono sicuro, quasi sfacciato, al mostrare un'espressione timida, da cane bastonato. Kristine provò molta tenerezza nei confronti della giovane, fino a quel momento un'estranea e improvvisamente divenuta parte di un luogo intimo della sua anima. Riprese il discorso per mettere di nuovo Marianne a suo agio. «Ho sentito che sei brava a suonare. Dove hai imparato?» «Macché brava, non scherziamo. Suono solo con una mano, non sono capace di usarle entrambe e non imparerò mai. Anche perché non so leggere quegli affari... Gli spartiti. Vado a orecchio, semplicemente. Tu quando hai imparato a suonare?» «Ho studiato un po' quando ero ragazzina. Ma parliamo di tanto tempo fa». «Però tu suoni benissimo, sei davvero brava. Sembri una professionista». Marianne aveva ritrovato la sua spigliatezza. «Una professionista? Eh, magari! Dunque ti piace Yiruma. Lo conosci bene?» le domandò Kristine con interesse. «Non tanto. Conosco quel brano perché è famosissimo ed è fantastico». La giovane si diede una manata sulla fronte. «Ecco, non mi ricordo nemmeno il nome». «River flows in you». «Già! Proprio lui». Rimasero in silenzio per qualche secondo, poi la ragazza prese lo smartphone da una tasca del suo giubbino. «Sono in ritardo. Ora devo andare via, mi aspettano degli amici per cena». «Te ne vai già?» le chiese sua zia con tono inconsapevolmente apprensivo. «Mi spiace. Mi ha fatto piacere parlarti». «Sicura? Sono stata maleducata, non sarei dovuta venire qui in questo modo». «Non importa. Mi ero solo un po' spaventata ma è tutto a posto» la rinfrancò Kristine abbozzando un sorriso. Il viso della ragazza s'illuminò. «Meglio così, allora. Anch'io sono stata contenta di aver parlato con te. Vado, è davvero tardi. Allora ciao, zia». La ragazza stava per lasciare la mansarda ma Kristine, improvvisamente e senza rendersene conto, la chiamò. «Marianne, aspetta!» La giovane si fermò e guardò la zia con aria sorpresa, ma in un certo senso appagata. «Volevo soltanto dirti che, se ti va e se ti fa piacere, puoi venire qui a suonare quando vedi che ci sono io in negozio. Le mie colleghe ignorano l'esistenza di questo pianoforte e non sanno che io mi fermo a suonarlo». Marianne la guardò divertita e le sorrise di nuovo. «Veramente? Nessuno sa nulla ma io posso venire qui? Che onore! Grazie». «Certamente. Sempre se ti fa piacere». «Altroché, se mi fa piacere. E non preoccuparti: manterrò il tuo segreto» concluse strizzando l'occhio. Sua zia la guardò dolcemente, cercando di mostrarle gratitudine. «Ora vai, tanto conosci già bene la strada. Ah, Marianne! Il negozio è chiuso. Esci dalla porta di lato, quella non l'ho ancora chiusa a chiave. Allora... Beh, buona serata». «D'accordo, esco sul vicoletto. Buona serata anche a te. A presto, zia». Kristine la sentì scendere le scale frettolosamente e chiudere la porta. Rimase sola nella mansarda che era ormai il suo rifugio da ogni cattivo pensiero. Richiuse il piano con la solita delicatezza, senza neanche accorgersi che stava sorridendo.
A Bergen era ormai buio. Non pioveva da diverse ore, ma le strade erano ancora piene di pozzanghere che facevano da specchio alle lanterne e ai colori vivaci delle case in legno. La baia di Vågen era un incanto. Kristine si avviò verso casa. Questa si trovava a circa settecento metri di distanza, più o meno a una decina di minuti, se si percorreva a piedi. Uno dei motivi per cui aveva scelto quella nuova casa era proprio la vicinanza al negozio. Il male che si era portata dietro da Stavanger le impediva di guidare la macchina per lunghi tragitti. La paura, alcune volte, la paralizzava. Per cui, preferiva muoversi per la città a piedi e guidare solo per brevi tratti. Le piaceva passeggiare per quelle strade, in qualunque stagione, a qualunque ora. Doveva percorrere un tratto di lungomare per poi dirigersi verso il rettilineo che conduceva alla Fløibanen, l'entrata della funivia che portava in cima al monte Fløyen. Una volta arrivata all'ingresso della Fløibanen, una serie di vicoletti in pietra si apriva dinanzi a lei. Questi tratti erano inevitabilmente in salita e spesso caratterizzati da brevi scalinate. Dietro il quartiere di Bryggen, la città si alzava dolcemente insieme al monte Fløyen. Le file di abitazioni erano in totale armonia con la natura e con la fisionomia del monte. Ammirando quel paesaggio, qualcuno avrebbe potuto persino affermare che le case e gli alberi si tenessero per mano, che niente fosse stato costruito dall'uomo, ma che quegli edifici fossero nati insieme al monte e ai suoi boschi, come le radici di ogni albero. Kristine si godeva ogni passo di questi suoi rientri a casa, tant'è che, di frequente, impiegava diversi minuti in più ad arrivare. Spesso cambiava percorso e, anziché approfittare delle scalinate, passeggiava per quelle vie di pavé che le erano tanto care. Quella sera camminava distrattamente e si trovò dinanzi alla sua piccola recinzione bianca in legno senza rendersene conto. Aveva percorso quei vicoli per abitudine, con la testa altrove. Salì i cinque gradini che la conducevano al suo adorato portone azzurro acceso, della stessa tonalità della casa in cui aveva la fortuna di abitare. Il suo animo romantico aveva scelto quella graziosa casa di legno, di un blu vivace, con le finestre bianche. Era un edifico non troppo grande, di tre piani, mansarda compresa. A lei era stata affittata proprio quest'ultima. Aprì la porta e capì dal chiacchiericcio che i padroni di casa stavano cenando. C'era tutta la famiglia Svensson al completo, come ogni giovedì: i genitori e i loro tre figli. Non poteva negare a sé stessa che il calore della sua famiglia le mancasse. Ci pensava ogni volta che ne vedeva riunita una. C'era un'unica entrata, la stessa da cui entravano e uscivano gli Svensson. Lei cercava sempre di non fare rumore, non voleva disturbare. Quella sera, proprio nel momento in cui stava richiudendo la porta, uscì per un attimo il padrone di casa, con la bocca piena. Ole Svensson era un uomo buffo e alla mano, piuttosto paffuto, quasi del tutto calvo, coi baffi scuri. Adorava mangiare, era un vero buongustaio. «Kristine, finalmente! Come va, cara?» domandò mentre stava ancora masticando. «Buonasera, Ole! Tutto bene. Spero di non aver interrotto la cena». «Ma figurati. Di solito rientri un po' prima quando lavori. Lo stavo giusto dicendo a Helga. Eravamo un po' in pensiero» le disse con tono paterno, mentre finiva d'ingoiare il suo boccone. Kristine guardò l'orologio sullo smartphone e si accorse che era rientrata quaranta minuti dopo rispetto al solito. «Accidenti! Non mi ero accorta che fosse così tardi». «Che ti è successo? Problemi al negozio? O qualche balordo ti ha infastidita per strada? Non esitare a dirmelo» esclamò con la sua tipica aria da finto burbero, strappandole un sorriso. «Nessun problema. Avrò camminato più lentamente del solito. Gli anni passano anche per me, le salite diventano più dure». Kristine era affezionata ai coniugi Svensson, l'avevano sempre trattata come una di loro, anche perché si conoscevano da una vita. Ole e suo padre avevano frequentato la stessa scuola, da ragazzini. «Grazie per la premura. Ora salgo, è davvero tardi. Porta un saluto a Helga e ai tuoi figli». «Non mancherò». Kristine fece alcuni gradini ma Ole la richiamò. «Kris». Lei si fermò di scatto, anche perché non aveva mai pronunciato il suo nome con un tono così confidenziale. «Proprio non reggevi più la tua vita a Stavanger, eh?» Lei si limitò a guardarlo e a scrollare la testa, poi rispose sinceramente, con voce malinconica: «Soffocavo, Ole. Non ero più io». Lui le sorrise con tenerezza. «Da noi sei sempre la benvenuta. Qualunque sia il motivo che ti ha riportata qui, l'unica cosa che conta è che tu stia bene. E sei anche una ventata di felicità per Helga e per me. Siamo contenti di averti con noi, visto che i nostri figli se ne sono andati. Ci fai sentire più giovani. Buona cena e buona notte, Kristine». «Grazie di tutto. Buonanotte, Ole». La donna continuò a salire le scale, pensierosa. Quella frase di Ole le aveva risvegliato brutti ricordi. Entrò nel suo nido, una mansarda da sogno, come quelle nelle favole. Quando stava lì dentro, aveva l'impressione di trovarsi in una baita isolata in qualche bosco, ma la situazione cambiava radicalmente se si avvicinava alla finestra dell'abbaino. Il panorama sul porto e sulla baia era mozzafiato. La mansarda degli Svensson non era enorme, ma sufficientemente grande, soprattutto per una persona che avrebbe dovuto viverci da sola. Lì non si correva certo il rischio di sbattere la testa. Era piuttosto alta, spaziosa, tant'è che ogni stanza era lì, su quello stesso piano, e Kristine non ci stava per nulla stretta. I padroni di casa si erano tenuti il piano terra e il primo piano, da quando i loro tre figli se n'erano andati. Il maggiore si era sposato e aveva cambiato quartiere, la secondogenita aveva trovato un buon posto di lavoro e desiderava l'indipendenza assoluta, il figlio minore condivideva un appartamento con i compagni universitari e non aveva la minima intenzione di tornare a casa. Ma era una famiglia unita, proprio come dimostravano quelle cenette di ogni giovedì sera. «Benjamin! Ci sei? Vieni fuori. Ti ho portato il salmone». Ed ecco che, in una frazione di secondo, come ogni volta che sentiva la voce di Kristine, Benjamin le corse incontro. «Tesoro mio, eccoti qui. Ciao». Benjamin era un gattone regalatole da Helga pochi giorni dopo il suo trasferimento, una specie di regalo di benvenuto. Era uno splendido esemplare di gatto delle foreste norvegesi. Aveva il consueto pelo semilungo, quasi totalmente bianco, con delle sfumature grigiastre sulla schiena. Faceva parte di una cucciolata dei padroni di casa. Kristine lo prese in braccio, sedette sul divano e lo coccolò per qualche minuto. Lui ricambiò con tante fusa e con le solite strusciate sul viso. La fissò con i suoi magnifici occhi azzurri, le circondò il collo con le zampe anteriori e le diede una tenera testatina. «Mi dispiace averti lasciato tutto il pomeriggio chiuso quassù, ma è piovuto tantissimo. Hai fame? Andiamo a cena». Si alzò con Benjamin ancora accoccolato attorno al suo collo, fece alcuni passi. «Amore mio, quanto pesi? Siamo arrivati a sette chili? E pensare che sei ancora un cucciolo». Passò davanti allo specchio vicino all'entrata e si fermò a guardarsi con il suo fedele amico in braccio. Puntualmente, percepì quell'immancabile sensazione di tristezza e dolore. Si accucciò per farlo scendere, gli diede la sua ciotola di patè al salmone e andò a prepararsi la cena. Tantissimi pensieri le passarono per la mente. L'incontro con Marianne l'aveva toccata nel profondo. Aveva fatto riaffiorare ricordi belli e ricordi orribili. Mangiò alla svelta, non vedeva l'ora di sdraiarsi. Sentiva che aveva bisogno di pensare, di riflettere. Si chiedeva tante cose, mentre era coricata sul divano con Benjamin accucciato sopra le sue gambe. Il suono delle fusa la rilassava, spesso le faceva da sonnifero vero e proprio, ma quella sera i suoi occhi verde chiaro fissavano il vuoto e la sua testa non smetteva di farsi domande, specialmente una: perché sua nipote, con la quale non aveva nessuna confidenza, era andata da lei? “Questa situazione è strana. Non la vedevo da otto anni. Giusto in foto, l'ho vista. Non ci parliamo da una vita, fra me e sua madre c'è una sorta di guerra fredda e lei lo sa. Perché è venuta a trovarmi? In quel modo, poi... Sarà stata vera la storia del pianoforte? Beh, certo che è vera, altrimenti come poteva sapere che io suono spesso quel brano? Che ci sia qualcosa dietro? Sarà successo qualcosa in famiglia? No, non può essere. Me l'avrebbe detto. Ha l'aria sincera, sembra una ragazza spontanea, è simpatica”. Kristine non faceva altro che pensare a quell'incontro, inaspettato ma piacevole. Marianne l'aveva riportata indietro nel tempo. Tuttavia, per quanto avesse potuto farle piacere aver rivisto sua nipote, aver parlato con lei significava pensare a tutta la sofferenza che si teneva dentro da anni. Ripensò alla sua famiglia, ai suoi genitori. Ripensò ad Amanda e iniziò a sprofondare nei ricordi più lontani. Fu la suoneria del suo telefono a riportarla al presente. Guardò lo schermo e sorrise. «Kasper! Possibile che mi chiami sempre nei momenti meno opportuni?» «Anch'io sono felicissimo di sentirti, sorella mia». |
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