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Writer Officina Blog
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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |

Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |

Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
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In chiave di Sol
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Il mito della caverna di Platone Immagina. Sei un prigioniero, incatenato in una caverna sin dalla nascita. Davanti a te, una parete. Dietro di te, un fuoco. Tra te e il fuoco, un gruppo di uomini tiene in mano delle marionette, proiettando ombre sulla parete che hai davanti. Tu e gli altri prigionieri, incapaci di muovervi, osservate quelle ombre e le scambiate per la realtà, senza sapere che esiste un mondo al di là della caverna, fatto di luce, colori e libertà. Ora, pensa se un giorno riuscissi a liberarti e a fuggire. Dovresti trovare la strada nel buio, affrontare la paura e ti sentirai solo per un lungo periodo. Però, a un certo punto, davanti a te c'è una luce: è l'uscita della caverna. Quando giungi entusiasta, accadrà un'altra cosa inaspettata: soffrirai. I tuoi occhi sono abituati al buio e la troppa luce li acceca. Ma se attraverserai il dolore con coraggio, arriverà il tempo in cui le tue palpebre si apriranno... e scoprirai la vita. Questo è il mito della caverna di Platone, un'allegoria del cammino verso la verità e la consapevolezza. La caverna rappresenta il mondo dell'illusione, della prigionia dei sensi e delle apparenze, mentre la fuoriuscita dalla caverna simboleggia la liberazione attraverso la conoscenza e la ricerca della verità. Nel mio racconto, il giovane Michael Hofer si trova proprio come uno di quei prigionieri, intrappolato nelle aspettative familiari, nelle convenzioni sociali e nelle illusioni che gli sono state imposte. La sua crescita, la sua lotta interiore e la ricerca della verità, non sono altro che il suo lento ma inesorabile percorso verso l'uscita dalla caverna. Come il prigioniero che, dopo aver visto la luce, si rende conto di quanto le ombre fossero ingannevoli, anche Michael è destinato a confrontarsi con la verità, che spesso si trova oltre ciò che ci è stato insegnato, oltre ciò che ci è stato imposto. Questo è il viaggio che affronterà e che, come ogni viaggio verso la consapevolezza, richiede coraggio, sacrificio e una rivelazione finale che cambia la propria percezione del mondo.
Appena nato, il destino gli aveva cucito addosso il prestigioso cognome degli Hofer di Bressanone. Tutti si aspettavano che quel bambino diventasse un uomo importante, e sua madre, Esmeralda Hofer, non faceva eccezione. Si impegnò a forgiare il destino di suo figlio sin dai primi passi. Doveva diventare un uomo affermato dell'alta borghesia e pretese che il ragazzo ricevesse un'educazione adeguata a riuscirci. Suo padre, Gustav Hofer, al contrario, sembrava addirittura restio a trasmettergli lati del suo carattere. Michael, invece, mostrò subito una certa precocità, dando motivo di credere che potesse davvero realizzare il desiderio di sua madre. Già a due anni, correva verso lo studio di musica con o sguardo fisso sui piedi, più incuriosito da quelli che da dove stava andando. Entrava, si metteva davanti al pianoforte e suonava per ore. «Quante volte ti ho detto di camminare? Sei un Hofer. Gli Hofer camminano, non corrono» lo rimproverava Esmeralda. Ma poi si fermava a guardarlo. Michael non si limitava a battere i tasti. Cercava le note, e le trovava d'istinto, come se la musica gli appartenesse da sempre. Anche Gustav dovette ammetterlo: Michael aveva qualcosa di speciale. «Dovresti vederlo disegnare, cara. L'altro giorno è entrato nel mio studio, ha preso un foglio, delle matite, e si è messo a copiare una delle mie tele. Preciso, attento. Mi ha lasciato di sasso, ci credi?» Erano entusiasti, certo. Da sette generazioni il cognome Hofer risuonava a Bressanone quale famiglia di potere, ricchezza e prestigio. Sebbene Esmeralda provenisse da una famiglia semplice, e in paese la ricordassero una ragazza gioiosa e altruista, tutti concordavano sul drastico cambiamento del suo carattere dal giorno in cui accettò di essere moglie di un Hofer. E dal giorno in cui Michael venne al mondo, quello sarebbe stato anche il suo destino. Esmeralda possedeva un fascino senza tempo, con capelli castani raccolti in uno chignon e occhi marroni dal taglio a goccia che emanavano fierezza. La sua bellezza, però, tradiva un carattere di ferro. Il freddo marmo riecheggiava al tocco dei tacchi, un abito verde danzava al suo passo e il profumo di lavanda si diffondeva nell'aria. Alla pari della pietra rara che il suo nome evocava, Esmeralda faceva la sua apparizione nella grande sala a braccetto con l'eleganza. Gustav Hofer si mostrava altrettanto un bell'uomo: alto, fisico asciutto, occhi scuri e capelli color dell'inchiostro. Si radeva la barba ogni mattina, e curava i suoi baffi neri in modo maniacale. Aveva una pazienza tale da risultare irritante, e sua moglie non esitava a farglielo notare. «Se avessi per me la stessa attenzione che hai per i tuoi baffi, sarei la donna più felice del mondo» gli diceva con tono freddo, ma Gustav sapeva addolcirla. Si voltava lentamente, le sorrideva e la fissava con occhi tenebrosi. Lei, arrossendo, gli sussurrava: «Diavolo di un uomo! Sai benissimo che il tuo sorriso ha sempre avuto un forte ascendente su di me» e si allontanava lasciandolo in compagnia del suo narcisismo. Gustav, si limitava ad assecondare la moglie in ogni suo capriccio e non ci fu volta in cui le diede torto o trovò il coraggio di contraddirla. Al massimo, se voleva ottenere qualcosa da lei, anche se non sempre ci riusciva, le sorrideva. E lei, a seconda dell'umore, o si lasciava sfuggire un “diavolo di un uomo!”, in segno di resa, oppure non rispondeva affatto, evitando però di sollevare lo sguardo per non restare intrappolata in quel sorriso come un insetto nella ragnatela. Sembrava comportarsi più da madre con Gustav che con Michael. Suo marito, benché avesse altre qualità, non aveva mai avuto polso, e questo non sarebbe dovuto accadere a loro figlio. Tuttavia, Gustav si intendeva d'arte e sapeva giocare a poker. Le uniche sfere della sua vita in cui appariva sicuro di sé, almeno per qualche ora. Faceva accomodare i suoi ospiti nello studio privato al primo piano, un ambiente piccolo ma accogliente, con un grazioso caminetto, un armadio bar e arredato con mobili in noce. Sulle pareti, come ci si poteva aspettare, non mancavano tele di pittori famosi. Tra boccate di sigaro e sorsi di whisky, il padrone di casa sfoderava full e scale reali, concludendo affari per quadri di grande valore. Nell'arte e nel poker Gustav Hofer riusciva a ribaltare il suo ruolo. La nostra storia inizia proprio qui, tra il fumo delle partite di poker e la passione per i quadri d'autore. Fu durante una di queste partite che Gustav Hofer incontrò Bérard Dubois, un appassionato d'arte e accanito giocatore di carte, con cui entrò in affari. Questo incontro cambiò lentamente il destino della famiglia Hofer. Era il 2 agosto del 1968, tre giorni dopo Michael avrebbe compiuto diciannove anni. Ma per comprendere davvero il destino degli Hofer, bisogna tornare a molti anni prima, quando Michael subiva in silenzio la forgiatura della famiglia.
Gli Hofer vivevano in una splendida villa di tre piani costruita nel mezzo di una vasta tenuta. Si percorreva un viottolo di ciottoli tra altissimi cipressi fino a ritrovarsi in un ampio piazzale, dove una grande fontana di marmo dava accesso alla loro dimora. Tutta l'area la curava il custode Mario Lucenti, un uomo sulla sessantina, brizzolato, con folte sopracciglia bianche sopra due occhi dal colore intenso del cielo. Viveva in una modesta casa di legno che aveva costruito da sé nei pressi dell'entrata principale. Ci provarono a farlo dormire nella villa, ma lui amava la solitudine e scelse un posto intimo, vicino il fusto di un albero secolare. Gli Hofer non obiettarono e lo lasciarono fare. Si diceva che, dopo la morte di sua moglie, il custode avesse deciso di non parlare più. Qualunque fosse il motivo, da allora nessuno lo sentì mai pronunciare una parola. A fargli compagnia c'erano cinque robusti rottweiler con i quali, per rispettare il suo giuramento, comunicava fischiando. Quei cani non avevano un nome. Mario Lucenti era un uomo generoso, sempre disponibile ad aiutare tutti, anche se nel volto invecchiato dal tempo traspariva la nostalgia che si portava addosso. Nonostante ciò, benché in casa non invitava mai anima viva, in molti erano sicuri che lì dentro si poteva percepire tutto il calore di una casa. Mario curava il suo piccolo nido esattamente come avrebbe fatto la moglie, tenendolo in ordine e profumato per far sì che lei fosse fiera di lui. Era l'unico uomo della servitù che Esmeralda Hofer guardava con tenerezza. Più del sorriso di suo marito, forse era la figura di Mario Lucenti a dissuaderla dal suo carattere orgoglioso e severo. Il tuttofare Filippo Dimitri lo aiutava nella manutenzione della villa. Un uomo di quarant'anni che aveva trovato negli Hofer la sua fortuna: malizioso e scaltro, otteneva sempre ciò che desiderava. I motivi per i quali Esmeralda avesse deciso di assegnare Filippo alla servitù, restavano poco chiari, ma spettava a lei prendere le decisioni e neanche suo marito si poteva opporre a questa scelta. «Cosa ci fa ancora qui? È uno scansafatiche» aveva fatto notare Gustav. «Lascialo al suo posto. Ho le mie buone ragioni e non ne voglio parlare» rispondeva lei con un tono che non ammetteva obiezioni. Gustav non aggiungeva altro, perché neanche il suo sorriso sarebbe servito a farla parlare. Ma, seppure poco propenso a contraddire la moglie, aveva notato che si irrigidiva quando si parlava di Filippo Dimitri. Rientrava nelle sue responsabilità di uomo e marito chiarire l'argomento, ma come già detto, al di fuori dell'arte e del poker, Gustav perdeva sicurezza in sé, e taceva. A servire gli Hofer c'erano anche cinque domestiche, tutte in divisa e con i capelli raccolti nello stesso modo, tanto da confonderle se viste di spalle. Tra loro, inconfondibile, era la cameriera più anziana, Elvira Kofler. Aveva qualche anno in più di Esmeralda e lavorava per gli Hofer da più di vent'anni. Michael cresceva accudito e riverito nella villa di famiglia, per volere di sua madre, lontano delle influenze nefaste della gente comune. Le sue paure venivano giustificate dagli attacchi terroristici che, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, sconvolsero l'Alto Adige. Per tali ragioni non gli fu mai concesso di uscire dalla villa da solo, giacché Esmeralda temeva che gli potesse accadere qualcosa di brutto. Aveva tutto ciò di cui necessitava in casa: lo studio per la mente, la preghiera per lo spirito e l'amore dei genitori per il cuore. Queste regole, forgiarono Michael in un piccolo ometto dell'alta borghesia. Con abiti eleganti, busto eretto e passo fiero come un vero Hofer, il ragazzino cresceva isolato dalla società, studiando privatamente e suonando il pianoforte, rispettando il volere di sua madre. Tuttavia, nei pomeriggi di sole, mentre la padrona di casa era indaffarata a spettegolare con le amiche all'ora del tè, una testa faceva capolino nella stanza dove Michael studiava musica. Due gemme brillavano incastonate in un viso grazioso, catturando la sua attenzione con un sorriso. Allora Michael si alzava di scatto dallo sgabello, li inseguiva e la incontrava, nel loro nascondiglio segreto, con lo sguardo trasognato rivolto al cielo tinto con un turchese pastello: «È la nostra porta verso l'infinito» gli sussurrava Camilla. E Michael ci credeva.
Il nascondiglio che dava sull'infinito era uno studio abbandonato da tempo all'ultimo dei tre piani della villa. Da lì si dominava l'intera proprietà degli Hofer, un morbido tappeto d'erba che si estendeva fino al frutteto di ciliegi, peschi e meli, creando in primavera una meraviglia di colori. Oltre il frutteto, il paesaggio mutava in un piccolo bosco di querce e faggi. Per Michael era semplice raggiungere lo studio inosservato, ma per Camilla non lo era affatto. Sua madre, Elvira Kofler, lavorava come cameriera, e per la figlia di una domestica risultava impossibile muoversi liberamente nella villa. Nonostante ciò, la vivacità e la curiosità, spingevano la ragazzina a trasgredire le regole anche a costo di beccarsi una punizione. Sempre attenta a non farsi vedere, aveva perlustrato la villa da cima a fondo e ne conosceva ogni angolo. Infatti, le stanze della servitù si trovavano al pian terreno vicino la grande cucina, unico luogo in cui si potevano udire schiamazzi e risa, ma sempre trattenute da un certo contegno. Camilla doveva fare molta attenzione per vedere Michael. Sua madre era stata categorica: «Tieni bene a mente che non ti è concesso girare per la casa e in special modo avvicinarti al figlio degli Hofer, o saranno guai grossi per te: ti spedirò dritta in America, dagli zii.» Lei non ci voleva andare in America. Aveva il terrore di quella zia che l'abbracciava così forte da soffocarla nel prosperoso seno, per giunta con i vestiti maleodoranti. Ma il desiderio di incontrare Michael vinceva sulla ragione. Trascorreva ore a pianificare tutto nei minimi dettagli pur di vederlo, e per farlo doveva sfruttare gli orari fissati dalla padrona di casa. Sveglia alle nove, colazione alle nove e trenta. Dalle dieci alle dodici Esmeralda si dedicava al suo passatempo preferito, confezionare vestiti disegnati da lei stessa: passione ereditata da sua nonna. Pranzo alle dodici e trenta. Riposo dalle quattordici alle sedici: la casa doveva piombare nel più totale silenzio. Alle sedici e trenta, decisione del menu della cena; alle diciassette, tè con le amiche; alle diciotto e trenta, si andava a cambiare per la cena e alle diciannove e trenta tutti a tavola. «A che ora si può andare a cagare?» domandava sarcastico Dimitri sottovoce, per non farsi udire dalla padrona. Michael, invece, trascorreva gran parte del tempo sui libri o ad ascoltare musica, unico svago che aveva. Non gli era stata concessa la televisione e neanche la radio. Esmeralda li riteneva una gran perdita di tempo per uno come lui. «Hai ricevuto un grande dono», gli diceva sua madre, «avevi due anni quando hai iniziato a suonare senza obblighi di nessuno. E se domandi a tuo padre, ti dirà quanto eri già portato per il disegno a quell'età. La televisione riempie il cervello di informazioni inutili. Ti annoi? Studia il piano o mettiti a disegnare, ma scordati quella scatola diabolica.» Tuttavia, Esmeralda aveva accordato alla cameriera Elvira di tenere una piccola televisione in camera. Serviva a intrattenere quella ragazzina vivace. Camilla, infatti, amava scherzare e combinarne di ogni. Di tanto in tanto, Elvira la cercava invocandone il nome a denti stretti perché ne aveva fatta un'altra delle sue. «Camilla, dove sei? Peste di una ragazzina vieni qui immediatamente. Se ti prendo sono guai, altroché se sono guai: ti spedisco dritta in America» la minacciava. Come la volta in cui spalmò sotto la suola delle ciabatte di Filippo Dimitri un potente collante. A momenti Filippo si rompeva il muso. «E non mi sarebbe dispiaciuto affatto. Meglio non fidarsi di uno come lui. Lo pensa tutta la servitù», disse una volta Camilla parlando di Dimitri. Michael aggrottò la fronte: «Cosa dicono?» «Sostengono che...» s'interruppe per avvicinarsi all'orecchio di Michael. Il respiro caldo gli accarezzò la pelle. Continuò: «Sostengono che abbia commesso qualche brutto reato e si stia nascondendo nella villa per non farsi arrestare.» Un brivido attraversò la schiena del giovane Hofer. Sentì un peso sul petto, come se l'aria si fosse fatta più densa. Sua madre parlava sempre di famiglie ricche prese di mira dai rapitori. Sbucavano dal nulla, portavano via i bambini e poi chiedevano il riscatto. Si morse un labbro, le ginocchia gli tremarono. «Quale reato?» domandò con un filo di fiato e il respiro strozzato. «Il mistero è proprio questo: nessuno lo sa. Ad ogni modo, di Filippo non c'è da fidarsi. Se ci fosse stato mio padre gli avrebbe spaccato il muso, te lo dico io» disse mostrando il pugno. «Dov'è tuo padre?» le chiese Michael. Camilla rabbuiandosi rispose: «Ora è in cielo. Un brutto male lo ha portato via.» Camilla gli aveva raccontato del papà con tristezza, confidandogli di sentirne la mancanza nonostante non lo avesse mai conosciuto. Michael, in quei momenti, avvertiva un forte desiderio di abbracciarla, ma nella famiglia Hofer gli abbracci erano inesistenti, e le dimostrazioni di affetto acqua nel deserto.
Gli incontri clandestini tra Michael e Camilla erano iniziati molti anni prima, quando i due ragazzini avevano circa dieci anni. Michael stava rientrando dal giardino quando vide nell'atrio una bambina sgattaiolare via, lesta come una lepre, e sparire dietro la porta di accesso alla cucina. Il ragazzo s'incuriosì. Un Hofer non aveva motivo di accedere a quegli spazi e fino ad allora il ragazzo aveva ignorato cosa ci fosse là dietro. Si fermò in direzione della porta. Poco dopo, un lieve scricchiolio ruppe il silenzio. Una testolina fece capolino. Due occhi tondi, brillanti come gemme preziose, apparvero. Le labbra sorrisero. Camilla si fece coraggio, lo avvicinò e bisbigliò: «Ciao, io sono Camilla.» Michael non rispose. Rimase incantato. Gli occhi tondi e gioiosi di Camilla riempirono il vuoto della grande sala. Impalato e ammutolito, con il petto martellante, avrebbe voluto parlare. Ma i riflessi di luce rispecchiati dal lampadario di cristallo sopra le loro teste illuminavano il viso di Camilla, esaltando la meraviglia appena sbocciata negli occhi di Michael. Di colpo il tacco di una scarpa ruppe il silenzio, un rumore deciso risuonò nella villa. Proveniva dal piano di sopra. La ragazzina si voltò di scatto, guardò in alto. Esitò. Di scatto corse via. La porta si chiuse, poi si riaprì lievemente. I due bambini si scambiarono ancora uno sguardo. Le labbra di Michael accennarono un sorriso, la porta si chiuse di nuovo e la ragazza sparì. L'apparizione improvvisa di Camilla fu per Michael una vera e propria rivelazione: non era solo nella villa. Ma un altro pensiero lo avvolse, ossia l'idea che nella sua tenera età mancasse qualcosa di prezioso. La ragazzina aveva la luce negli occhi e, a differenza sua, e gli era sembrata felice. Così, dopo il primo incontro con la figlia della cameriera, tentò di parlare con sua madre cercando di farle capire che i suoi pomeriggi erano noiosi. «Se soltanto avessi qualcosa da fare per non annoiarmi», le aveva detto. «Puoi benissimo esercitarti al pianoforte: vedrai come ti passerà la noia. Ai miei tempi non avevamo nulla e ti garantisco che non ci si annoiava affatto.» «Cosa si faceva ai vostri tempi?» «Quelli più fortunati, come tuo padre, studiavano. Quelli meno fortunati, come me, si rimboccavano le maniche e lavoravano.» «Il nonno ti faceva lavorare?» «Tuo nonno era una persona buona, ma senza studio, pace all'anima sua. Aveva un'attività di tessuti, ma gli affari andavano male. Sapeva ben poco di come si gestiva un'azienda e dovette lasciare l'Italia per andare in cerca di fortuna all'estero. Credi che ci sia riuscito? No. Un'ambizione va supportata dallo studio. Lo sapeva bene Vittorio, l'altro tuo nonno. Lui era un uomo colto, bene informato su tutto quello che gli girava intorno. E di certo non per merito della televisione. Aveva studiato, a differenza di mio padre. E ora cammina a fare il tuo dovere senza farmelo ripetere due volte.» Tuttavia, dopo il primo incontro, appena terminata l'ultima lezione prima del pranzo, Michael passava davanti alla cucina e lì si esitava con la speranza di rivedere Camilla. Giorni dopo la incontrò di nuovo. Lei gli si avvicinò veloce e gli propose l'inaspettato appuntamento, Michael si imbarazzò: «Ma come faccio? Mia madre non vuole.» «Basta non farsi vedere» gli sussurrò con un sorriso malizioso. Michael si sentì mancare il fiato, scosse la testa. Camilla, abbassando di più la voce, insistette proponendo di incontrarsi durante l'ora del riposo. «E se ci scoprono?» domandò Michael sbattendo il piede sul pavimento. «Fifone. A quell'ora la casa è deserta. Sono salita un milione di volte fino alla tua stanza senza essere mai vista» si vantò lei. Michael spalancò le palpebre. «Una volta ti ho anche spiato dall'uscio» aggiunse ridendo. Michael sbarrò la bocca. Camilla scoppiò a ridere, ammettendo di averlo preso in giro. «Allora? Che fai? Ci stai o ti tiri indietro?» domandò lei innervosita, con le orecchie tese per sentire se stesse arrivando qualcuno. Michael guardò fuori dalla vetrata sulla porta dell'ingresso principale. Pioveva. Le gocce scivolavano lungo la superficie del vetro e sembravano rincorrersi. Nonostante il tempo, le pareti si tinsero di luce riflessa nei cristalli del grande lampadario che padroneggiava l'ampio atrio. Sospirò. Aveva soltanto dieci anni. Cosa poteva accadere se per una volta trasgrediva alle regole di sua madre? Si udirono dei rumori provenire dal piano superiore. Qualcuno stava scendendo le scale e dal passo fiero si presagiva l'arrivo di Esmeralda. Camilla scappò via e scomparve dietro la porta della cucina. Michael restò nell'atrio, con lo sguardo rivolto verso le scale, immobile come uno dei tanti dipinti di valore appesi alle pareti. Un velo di agitazione gli si posò pesante sullo stomaco. Si voltò a guardare in direzione della porta. Sentì l'anima relegata alle fredde manette di una rigida educazione. Lui voleva soltanto giocare, divertirsi, come Camilla. Provò un brivido di paura al pensiero di incontrarsi di nascosto con lei, ma quell'emozione assumeva il sapore di libertà. «Ah! Sei qui. Cosa stai facendo lì come un manichino? Perché non sei a studiare?» riecheggiò la voce della madre. Michael salì le scale fino al primo piano dove lei lo aspettava davanti alla stanza in cui il ragazzo faceva lezione. «L'insegnante arriverà a momenti: attendila qui. Sarebbe cosa saggia iniziare ad aprire il libro e farsi trovare pronto» lo ammonì. Il ragazzo obbedì. Trascorse la lezione con lo sguardo rivolto fuori dalla finestra. La pioggia aveva smesso di cadere. Sembrava esserci silenzio là fuori, anche oltre i confini della tenuta. Sembrava che tutto il mondo fosse muto. Si domandò come scorresse la vita all'esterno della villa, silenziosa o, invece, rumorosa come la sua anima in quel momento. L'insegnante si alzò dalla sedia. L'ora di lezione era terminata. Si avvicinò a Michael, gli diede i compiti per il giorno dopo. «Oggi mi sei sembrato molto distratto. È successo qualcosa?» gli domandò. Michael abbassò il viso. «Ti ha fatto arrabbiare qualcuno?» «No,» rispose con un filo di voce. «Ok. Non ne vuoi parlare» gli disse l'insegnante accarezzandolo. Ritornò alla scrivania, diede uno sguardo veloce all'agenda, dopodiché, ricordò a Michael gli esercizi per l'indomani. Con un elegante inchino, lo salutò. Michael restò nella stanza pensieroso, a osservare trasognante fuori dalla finestra. Sua madre aveva fatto sistemare un tavolino e una specie di cattedra. Si riflettevano sui vetri, insieme al pianoforte alle spalle di Michael. Dentro al riflesso c'era il riassunto di tutto il suo mondo. Fu allora che Camilla lo fece saltare dalla sedia: «Allora? Cos'hai deciso?» «Che ci fai qui? Ti possono vedere.» «Muoviti, tua madre sta per arrivare. Ti va di vederci oppure no? All'ora del riposo, alle due e mezza, ti aspetto in cucina. Non ci scopriranno, promesso.» Michael annuì. Alle quattordici e trenta dello stesso giorno, l'adrenalina scorreva nel corpo di Michael come un fiume in piena. I due si incontrarono nella grande cucina come stabilito. Era adornata con tante pentole e arnesi per cucinare. Tutta bianca, si poteva respirare il profumo del cibo e del pane caldo. Michael si guardava attorno tanto incuriosito quanto agitato. A quell'ora non c'era nessuno, ma il cuore del ragazzino batteva all'impazzata per la paura di essere visti. «E se viene qualcuno?» «Abbassa la voce. Vuoi farti beccare?» lo rimproverò. «A quest'ora la cucina è sempre deserta, ma tu cerca di fare silenzio: possono sentirci» aggiunse. Da lì, dopo aver sgraffignato qualcosa da mangiare, Camilla lo condusse nella baracca degli arnesi, subito fuori la villa, dove Michael passò l'ora più bella della sua vita. «Ma dai? Non sei mai uscito di casa?» gli domandò. Imbarazzato, Michael non rispose. «Vorresti farmi credere che non sei mai uscito da solo?» gli domandò stupefatta. «Tu sì?» «Milioni di volte. Mamma mi manda spesso in paese a sbrigare delle commissioni!» L'aria era frizzante. Aveva smesso di piovere, ma il cielo era ancora coperto. I due restarono nella baracca per molto tempo, facendo attenzione a non farsi sentire. Michael era spaventato dall'idea che qualcuno potesse accorgersi di loro, mentre lei sembrava spensierata e a suo agio, forse perché era abituata alle punizioni. «Non credi sia il caso di andare? Se mia madre mi cerca e non mi trova?» Fin da bambina, Camilla aveva imparato a muoversi nella villa senza essere vista. Conosceva gli orari della famiglia Hofer, i loro percorsi abituali, persino le piccole deviazioni che prendevano nei corridoi. Ogni segreto della casa le era noto, nonostante i divieti della madre. Lei osservava, ascoltava, memorizzava. Era sconvolgente come quella ragazzina sapesse sul conto dei coniugi Hofer più di quanto Michael, loro figlio, potesse immaginare. «Chi credi che chiamino per ogni loro capriccio? Noi della servitù. È normale che conosca tutte le abitudini dei tuoi genitori. Fidati, tua madre non ti cercherà, non lo ha mai fatto a quest'ora» lo rassicurò. Con il tempo, la paura di Michael si tramutò nell'ebbrezza di disubbidire ai genitori. Senza rendersene conto, frequentare Camilla di nascosto divenne una piacevole abitudine. Al termine di ogni incontro organizzavano nel dettaglio l'appuntamento successivo, in modo da evitare movimenti sospetti di Camilla nella villa. I pomeriggi di Michael si arricchirono di emozioni. Trascorsero mesi, poi anni, e l'adolescenza fece capolino in villa Hofer, portando con sé, per i due ragazzi, la scoperta di nuove sensazioni. La loro amicizia si faceva più intima. Michael iniziò pian piano a provare dei brividi davanti alle movenze sensuali di Camilla. Quando lei si avvicinava, e il profumo della pelle gli sfiorava l'olfatto, Michael sussultava. Arrossiva, voltava lo sguardo, mentre Camilla sorrideva divertita. La ragazza maturava, il corpo mutava, le magliette mostravano i primi accenni di un seno che cresceva. Camilla non lo faceva di proposito. Ricopiava i suoi atteggiamenti dalle figure femminili della televisione. Così, seppur giocando, seduceva Michael. Il ragazzo, a sua volta, trovava nelle nuove esperienze emozioni inspiegabili. Insieme, sperimentavano l'inebriante intimità nata dalla loro amicizia clandestina. |
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