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Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Giuseppe Minicone
Titolo: Madri
Genere Romanzo
Lettori 17
Madri
Paolo sbuffò nel salire: l'autobus che doveva riportarlo a casa, dopo l'ufficio, era, come sempre, affollato. Si rassegnò, concentrandosi sul pensiero che, di lì a poco, avrebbe rivisto Loredana.
Era stato solo per poterla sposare che aveva accettato quel lavoro che gli dava poche soddisfazioni e lo costringeva a un disagio quotidiano.
Tutto era iniziato dodici anni prima, nell'estate del 1960; lui, allora diciottenne, aveva incontrato al mare quella ragazzina quindicenne e, benché lei avesse tentato con ogni mezzo di tenerlo lontano, aveva finito con l'innamorarsene, senza lasciarsi scoraggiare dal suo carattere scontroso, convinto che dietro quell'apparenza ruvida e respingente si celasse una creatura fragile, tormentata da angosce ataviche, delle quali, forse, neppure aveva coscienza.
Nei due lunghi mesi di quell'estate torrida, grazie alla sua perseveranza, lei, a poco a poco, aveva cominciato ad aprirsi e a confidargli le sue paure, delle quali lui si era fatto carico, illudendosi che, per conquistarne l'amore, fosse sufficiente far affiorare dal subconscio di lei eventi oscuri dell'infanzia, che ne avevano condizionato la vita e la personalità.
Aveva così intrapreso un processo faticoso di ricerca, che si era rivelato estremamente doloroso per entrambi e il cui approdo aveva spalancato l'abisso di un'infanzia violata, facendone riemergere i fantasmi che vi erano stati sepolti. L'esito, però, non era stato quello sperato, anzi, si era rivelato devastante, perché aveva dato inizio a un lungo incubo, dal quale Loredana aveva tentato, alla fine, di liberarsi, cercando di togliersi la vita.
Quell'episodio non aveva mai potuto dimenticarlo e ancora adesso rabbrividiva al ricordo.
Un crepuscolo di tempesta, il mare di Napoli oscuro e minaccioso, una figuretta bianca che si lasciava cadere fra le onde, mentre lui urlava nello sforzo di raggiungerla, un disperato tuffo fra i flutti tumultuanti. Il mare gli aveva spinto tra le braccia un corpo senza soffio vitale, ma la Morte, che già credeva di averla fatta sua, non era riuscita a ghermirla del tutto, perché, nella disperata battaglia che ne era seguita, mani esperte l'avevano restituita alla vita.
Sennonché, dall'attraversamento del confine dell'ignoto, era riemersa una ragazza diversa, capace finalmente di amare, e, da allora, le loro esistenze si erano intrecciate in maniera indissolubile, fino a quando, dopo sei anni, si erano uniti in matrimonio.
Erano trascorsi altri sei anni dalle nozze e la loro unione si era rivelata felice sia sotto il profilo dell'intesa spirituale sia sotto quello dell'intesa fisica, perché Loredana, liberatasi dai terrori ancestrali, si era mostrata, come Paolo aveva intuito fin dall'inizio, una compagna affettuosa, forte di carattere e generosa nei sentimenti.
Malgrado il tempo trascorso, il loro era ancora un amore tenero in un eterno presente. Avevano imparato a intendersi con uno sguardo, si comportavano come complici e vivevano come due amanti.
I pensieri di Paolo furono interrotti da un concerto di claxon: il traffico si era bloccato e gli automobilisti avevano cominciato a suonare per sfogare la loro frustrazione. Per fortuna il frastuono durò poco, perché il traffico ricominciò insperatamente a defluire, cosicché giunse a destinazione, su al Vomero, addirittura con leggero anticipo sull'orario consueto.
Si avviò svelto verso casa e, a mano a mano che si avvicinava, sentì montare come sempre la smania di giungere il più presto possibile, cosicché il passo divenne corsa fino a che giunse col fiato mozzo.
«Ciao» fece aprendo precipitosamente la porta e dirigendosi in cucina.
«Ciao» rispose quietamente Loredana, venendogli incontro con le mani sgocciolanti, rinserrate nei guanti di gomma e alzate per non sporcare il pavimento tirato a lucido, mentre spingeva in fuori le labbra chiuse a “o” per ricevere il bacio.
Aveva ormai ventisette anni, ma per Paolo era rimasta la ragazzina di allora, con il musetto che le dava un'aria perennemente imbronciata anche quando, come in quel momento, era contenta per il suo ritorno.
«Novità?» le chiese, pur sapendo la risposta.
«Nessuna. Sono uscita come al solito per la spesa. E tu?»
«Ordinario lavoro d'ufficio. Niente di particolare.»
«La dattilografa oggi non ti ha corteggiato?»
Non era una domanda indagatrice. Loredana aveva cominciato a prenderlo amabilmente in giro da quando l'aveva incautamente informata che gli era stata da poco assegnata una nuova giovane dattilografa.
«Non me ne sono accorto» fece Paolo, stando allo scherzo, «quello che posso dirti è che oggi ha battuto a macchina, senza lamentarsi, un documento di dieci pagine che le ho dettato... forse era contenta di starmi vicino.»
Loredana fece spallucce.
«Tutto qua? Non montarti la testa. È stata appena assunta e non vuole rischiare di perdere il posto. Non sei così affascinante come credi.»
Non c'era verso di farla ingelosire. Loredana aveva una tale fiducia in lui da non farsi sfiorare da alcun sospetto e Paolo, benché non avesse mai nutrito alcun pensiero di tradirla, un poco si indispettiva per questa sicurezza.
«Sta' attenta a te! Potrei sempre cadere in tentazione.»
Altre spallucce.
«Provaci e vedrai di che cosa sono capace io.»
Era una risposta equivoca: l'avrebbe ripagato con la stessa moneta? L'avrebbe abbandonato immediatamente? Gli avrebbe fatto una scenata memorabile?
Non valeva la pena indagare, tanto l'argomento di partenza era del tutto poggiato sul nulla.
Si sedettero a tavola, mentre l'anziana gatta Lo' si era già accomodata sulla tovaglia, nella speranza che nel cibo umano vi fosse qualche novità gradevole, che rompesse la monotonia del suo pranzo felino. Ma a lei era permesso tutto: aveva dodici anni e non spiccava più i balzi di un tempo. Ora, per salire sulla tavola, saltava prudentemente prima su una sedia. Paolo, all'inizio, aveva protestato per quello che considerava un attentato all'igiene, ma Loredana aveva sempre preso le difese della bestiola.
«Lasciala fare come vuole; i suoi batteri rafforzano le nostre difese immunitarie» era stato il suo originale ragionamento «e poi ha vissuto tutte le traversie del nostro amore: merita la nostra gratitudine.»
Paolo si era ben presto rassegnato, limitandosi timidamente ad allontanarla, sotto lo sguardo corrucciato di Loredana, solo quando infilava il muso o una zampetta direttamente nel suo piatto.
Dopo un po' si accorse del silenzio che li circondava. Era inusuale. A tavola, Loredana era solita commentare le notizie della giornata con particolare attenzione agli eventi politici.
La dialettica tra di loro era garantita. Loredana nutriva idee progressiste e Paolo, pur dichiarandosi di sinistra, si divertiva, spesso, a contraddirla, difendendo le ragioni dei conservatori. Da qui, discussioni animate che si concludevano invariabilmente con il broncio di lei e l'abbraccio pacificatore di lui.
Quel pomeriggio, a tavola, Loredana, invece, non parlava. Sembrava assorta a contemplare il piatto di minestra che aveva dinanzi, come se un pensiero molesto le mulinasse per il capo.
«Mi ha telefonato zia Carolina» disse d'un tratto, tirando un respiro profondo.
Zia Carolina era, in realtà, una prozia di Loredana, che, in giovane età, aveva deciso di farsi suora e che da molti anni viveva in convento, distaccata dal mondo. Benché invitata, non aveva partecipato neppure al suo matrimonio, pur inviandole un regalo accompagnato da una lettera affettuosissima, dalla quale, peraltro, era emersa la totale ignoranza di tutte le vicende amare che avevano avuto per protagonista la nipote.
«Che evento!» esclamò Paolo «E a che dobbiamo questo onore? Ti ha, per caso, raccomandato di non scordarti di dire le preghiere prima di fare l'amore con me?»
«Non fare lo stupido. Ti pare che zia Carolina possa affrontare un simile argomento o che io sia disposta a raccontare i nostri fatti intimi... Mi ha chiesto...» esitò impercettibilmente «se sono disposta a fare qualche ora di insegnamento come supplente nella scuola media annessa al convento... Solo per qualche mese, perché l'insegnante attuale sta per andare in congedo per gravidanza.»
«E dove sarebbe questa scuola?»
«E' un po' lontana, ma potrei raggiungerla comodamente, prendendo l'autobus che passa sotto casa.»
A Paolo apparve, per un attimo, l'immagine del mezzo affollato in cui era costretto a salire ogni giorno e di Loredana stretta nella calca fra decine di sconosciuti, pronti ad approfittare della situazione.
«Sei sicura che valga la pena di sottoporti a un tale strapazzo per poche migliaia di lire? In fondo non ne abbiamo bisogno.»
«Non è il guadagno che mi alletta, ma la possibilità di rompere il tran tran quotidiano e di cominciare a mettere a frutto finalmente la laurea che ho... Sai, trascorrere tutte le mattinate in casa con il solo diversivo dell'uscita per la spesa, alla lunga è...»
Si fermò, visibilmente pentita di aver sfiorato l'argomento. Per tacito accordo nessuno dei due amava parlare di quello che era l'unico neo della loro unione: la mancanza di figli.
Non erano venuti, punto e basta, e l'avevano accettato senza indagarne la ragione, forse perché avevano ritenuto di bastare l'uno all'altro o forse perché scoprirne la causa avrebbe significato rendere uno dei due responsabile in qualche modo agli occhi dell'altro, finendo involontariamente per aprire una crepa nella solidità del rapporto.
Ora, però, questo piccolo graffio sul cuore era venuto fuori inopinatamente, superando la barriera dell'inconscio, e Paolo non potette fingere di non aver capito né lo volle, perché quella reticenza era la spia di un rimosso che si era accumulato con il tempo.
«Ti senti sola?» disse dolcemente prendendole la mano.
«Che dici!» protestò Loredana vivacemente «Con te accanto non mi sono mai sentita sola. Tu sei l'unico che abbia dato un senso alla mia esistenza; se oggi sono quella che sono è solo grazie a te e lo sai. Tu mi hai restituito alla vita e la mia vita è riempita da te, unicamente da te, tesoro.»
Le parole e il sorriso che le accompagnò apparvero sinceri, ma a Paolo non sfuggì il velo impercettibile che, suo malgrado, si era posato sopra le pagliuzze dorate delle pupille di Loredana.

L'ombra era già discesa nel salottino dove, di solito, si rifugiavano per guardare la televisione, ma quella sera aleggiava nell'aria un qualcosa di irrisolto, dopo le parole pronunciate a pranzo da Loredana, qualcosa che metteva entrambi sottilmente a disagio.
Fu Paolo a interrompere per primo il silenzio che regnava fra di loro.
«Allora, vogliamo parlare?» disse.
«Di che cosa?» fece lei svagata.
«Del figlio che non viene» esclamò lui, senza perdersi in inutili preamboli.
Lo guardò con i suoi occhi profondi color nocciola attraversati da un lampo indefinito.
«Perché, non sei felice con me?»
La domanda lo colse di sorpresa. Loredana stava sparigliando il gioco tra loro due e si era portata in vantaggio. Certo che lui era felice di quello stato! Fin da quando l'aveva presa in moglie non aveva mai avvertito il desiderio dei figli. Se fossero venuti li avrebbe accolti e sicuramente amati, ma, nel segreto del suo cuore, aveva nutrito la speranza che non venissero, perché ciò gli avrebbe consentito di avere Loredana tutta per sé, senza doverla condividere con marmocchi urlanti, che ne avrebbero assorbito le energie e distratto la mente. La loro intimità sarebbe stata perduta per sempre e la stanchezza inevitabile dell'accudimento avrebbe appannato quel desiderio che ancora adesso, a distanza di tanti anni, si era mantenuto vivo come all'inizio.
Ora Loredana, con la sua domanda, apparentemente innocente, lo aveva messo di fronte alle sue responsabilità: se avesse risposto affermativamente avrebbe manifestato insensibilità per quel turbamento che lei aveva delicatamente portato alla luce; se avesse risposto negativamente, avrebbe sconfessato d'un colpo la sincerità dei sentimenti che aveva espresso per tutti quegli anni.
Optò per una piccola menzogna, che, però, l'avrebbe rimesso in sintonia con lei, facendogli recuperare lo svantaggio iniziale.
«Sono felice allo stesso modo in cui lo sei tu.»
Ma Loredana non aveva intenzione, nella schermaglia che li stava opponendo, di perdere il vantaggio iniziale.
«Allora di che dobbiamo parlare?»
Paolo capì che doveva cedere. Lasciar cadere la domanda di lei, avrebbe compromesso, forse per sempre, l'atmosfera di complicità, che era stata uno dei collanti del loro amore.
«Forse potremmo essere ancora più felici.»
«Più di così? E come?»
Loredana non gli faceva sconti. Voleva che fosse lui a esporsi.
«Se avessimo un bambino, per esempio.»
«Davvero lo vorresti!»
L'esclamazione le venne fuori con una foga maggiore di quanto fosse nelle sue intenzioni e, per un attimo, temette di aver ferito Paolo, che, infatti, rimase colpito da questa impetuosa eruzione di un sentimento tenuto finora così racchiuso da non fargliene sospettare l'esistenza.
«Certo che lo vorrei» disse convinto.
Non era più una menzogna la sua: la luce che era apparsa negli occhi di Loredana gli aveva fugato dal cuore, in quel momento, ogni forma di egoismo.
«Purtroppo, non basta volerlo» sospirò lei «finora... e sono già passati sei anni... non è accaduto nulla, benché non abbiamo mai preso alcuna precauzione.»
«Per questo aspetto, non ci siamo risparmiati.»
Rise per alleggerire la sottilissima tensione che si era creata.
«Già, ma non è stato sufficiente: qualcosa evidentemente non va.»
L'atmosfera si era fatta, loro malgrado, malinconica e l'affermazione restò sospesa nell'aria senza che nessuno dei due le desse seguito, pentiti entrambi, forse, di aver affrontato l'argomento.
Paolo accese la televisione e guardarono distratti la puntata dello sceneggiato che fino a quel momento li aveva tanto coinvolti.
Giuseppe Minicone
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