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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |

Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |

Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
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Almanacco del pronto soccorso
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Se A chi crede in qualcosa. La passione trasforma il lavoro in piacere e porta un contributo al benessere collettivo. Chi è schiavo del denaro perde questa dedizione
Sono riuscito ad apprendere ogni volta che ho ascoltato. Sono riuscito a vedere la bellezza nelle persone, negli eventi e nelle cose ogni volta che ho accolto la diversità. Sono riuscito a svolgere bene il mio lavoro ogni volta che ho ricordato di poter migliorare la vita di qualcuno. Non importa se sei un medico, un infermiere, un OSS, un barelliere o un addetto alle pulizie, ciò che conta è considerare un lavoro ben fatto come un atto d'amore perché, come diceva Madre Teresa di Calcutta, siamo gocce nell'oceano, ma... l'oceano è fatto di tante gocce.
Il Pronto Soccorso è un luogo che nessuno vorrebbe frequentare, eppure rappresenta una tappa quasi inevitabile nelle nostre vite. È una terra di confine, dove paura e speranza si incontrano, dove l'umanità si manifesta nella sua forma più autentica, tra l'assurdo quotidiano e gesti che riescono a cambiare tutto. Qui, dove l'eccezionale si mescola con la routine e la fatica diventa una compagna inseparabile, s'intrecciano le vite di medici, infermieri, OSS e pazienti, ognuno portatore di una storia, un frammento di vita che contribuisce a rendere questo microcosmo vivo e unico. Con uno stile che sa essere ironico e toccante al tempo stesso, questo libro ci guida dietro le quinte di un mondo frenetico, rivelandone tanto la straordinaria complessità quanto la sua intrinseca bellezza. Attraverso le storie di Edoardo, un giovane OSS, e dei suoi colleghi e pazienti, scopriamo la forza della resilienza, l'importanza dei piccoli gesti e il coraggio di chi dedica la propria vita a prendersi cura degli altri. Un viaggio autentico, a tratti sorprendente, nel cuore dell'emergenza sanitaria, che ci ricorda che, anche nel caos, è possibile trovare un senso, un sorriso, una scintilla di umanità. Perché, in fondo, dietro ogni camice si nasconde una persona, e dietro ogni turno massacrante una storia degna di essere raccontata.
Quel giorno mi trovavo seduto di fronte al mare, completamente immerso in un silenzio che non aveva nulla a che fare con la quiete di una giornata di riposo. Non c'erano orologi a scandire il tempo, né telefoni a interrompere il flusso dei miei pensieri. Il mondo si era fermato e io, nel mio angolo di pace, mi sentivo come se fossi diventato un tutt'uno con quell'infinito. In quel silenzio, riflettevo su quanto fosse diverso dal caos del pronto soccorso, dove ogni minuto è una lotta contro il tempo e il rumore è il nostro compagno constante. Le onde, con il loro ritmo costante sembrava mi stessero dicendo: «Respira. Qui non devi correre, non devi rispondere a chiamate, non devi salvare nessuno.» Avevo letto su una rivista che fare digiuno dal cibo per qualche giorno poteva avere effetti sorprendenti sul corpo, ripristinando un equilibrio che lo stress e la routine quotidiana avevano smantellato. Non avevo mai provato, ma in quel momento pensai che forse la mente avesse bisogno di una sorta di digiuno. Un digiuno dal caos, dal rumore che la vita moderna ci impone. Forse, in fondo, cercavo una pausa non solo per me, ma anche per tutte le voci che mi portavo dentro: quelle dei colleghi, dei pazienti, delle emergenze non risolte. E così, senza alcuna intenzione di cercare risposte, decisi di lasciarmi andare, come una barca alla deriva, sapendo che non avevo bisogno di una destinazione, ma solo di ascoltare il flusso del mio respiro e della natura che mi circondava. Restavo lì, immobile, solo con il suono delle onde che si infrangevano sulla riva, con il loro continuo, inesorabile movimento. Ogni rumore lontano, ogni pensiero, sembrava dissolversi nell'aria salmastra. I ricordi che mi affollavano la mente non erano più nitidi, ma si sfumavano come acquerelli sotto la pioggia. Le preoccupazioni che mi avevano perseguitato per giorni ora sembravano così lontane, così insignificanti. Ciò che davvero contava, in quel momento, era il qui e ora. Nessun passato da rimpiangere, nessun futuro da temere. Solo il mare, che mi parlava con la sua lingua antica e misteriosa. Riflettei su come, ogni volta che mi ero preoccupato troppo per qualcosa, avevo finito per non affrontarla nel miglior modo possibile. Le ansie e i timori avevano preso il sopravvento, distorcendo la realtà, rendendola più grande di quanto fosse davvero. Il mare, invece, con la sua calma infinita, mi insegnava che la vita è fatta di piccoli gesti, di attimi che, se vissuti nel momento giusto, possono cambiare tutto. Un respiro, un pensiero, una decisione. E tutto può trasformarsi. Il mare... Quante storie sono state scritte su di esso, quante leggende nascoste nei suoi abissi! È sempre stato un simbolo di mistero e di bellezza, ma anche di pericolo. Chi non ha mai sentito parlare di tesori nascosti nelle sue profondità? Ma quei tesori, si sa, non sono mai facili da trovare. Sono sepolti sotto strati di sabbia, lontano dagli occhi di chi non sa cercare. E così, anche le persone, mi venne in mente, tendono a nascondere ciò che di più prezioso hanno dentro di sé. Mostriamo al mondo ciò che pensiamo sia accettabile, ciò che gli altri vogliono vedere. E spesso, la parte più intima di noi rimane sepolta, come un tesoro dimenticato, in attesa di essere scoperto da qualcuno che sappia guardare più in profondità. Le onde, con il loro incessante movimento, mi riportarono indietro nel tempo ai ricordi della mia infanzia, quando, insieme ai miei fratelli, andavo in vacanza al mare. Luca, il più piccolo, era sempre intento a costruire castelli di sabbia, con una determinazione che mi faceva sorridere. Marco, invece, il più grande, passava ore sotto l'ombrellone, con il suo diario sempre in mano. Ricordo bene come custodisse quel quaderno, con una gelosia che sembrava proteggere un segreto. Ogni pagina, ogni parola, sembrava per lui un tesoro da preservare a ogni costo. E io, a volte, mi chiedevo cosa contenesse davvero quel diario. Cosa scriveva, cosa sentiva? Mi chiedevo se, forse, anche io avessi un tesoro nascosto nel profondo, qualcosa che, come il mare, non riuscivo ancora a scoprire. Fu in quel momento che mi resi conto che, forse, la scrittura sarebbe stata la chiave per trovare quel tesoro. Scrivere non solo per mettere ordine nei pensieri, ma per cercare, per scavare dentro di me, per trovare ciò che giaceva nascosto. Come un esploratore che scende nei fondali marini, pronto a scoprire ciò che era rimasto sepolto per troppo tempo. E così, decisi di prendere carta e penna e cominciare. Non sapevo cosa sarebbe uscito da quelle pagine, ma sapevo che dovevo iniziare. La mia ricerca finalmente aveva una direzione. Mi resi conto che non riguardava qualcosa di remoto, ma qualcosa di estremamente importante per me: la mia professione.
La solita frenesia
Era passato poco più di un trimestre da quando avevo iniziato a lavorare al pronto soccorso. Tre mesi che sembravano un'eternità, come se il tempo si fosse dilatato sotto il peso delle emozioni e della fatica. Ogni turno si apriva con la solita frenesia: un intreccio di voci concitate, richieste impellenti, e situazioni da risolvere al volo. Pazienti con volti segnati dalla sofferenza si alternavano alle porte automatiche, mentre noi — medici, infermieri, operatori socio-sanitari — cercavamo di mantenere il controllo, muovendoci come pezzi di un complicato mosaico che non smetteva mai di trasformarsi. Fuori al triage i pazienti aumentavano mentre all'interno della sala si udiva il medico dell'aria chirurgica chiedere a gran voce qualche altra barella. Nonostante il poco tempo trascorso, sentivo che quell'ambiente mi aveva già cambiato. L'urgenza, le emozioni contrastanti e il senso di responsabilità si erano intrecciati nella mia quotidianità. Avevo sempre pensato che avrei avuto la possibilità di acquisire nuove competenze gradualmente, ma al pronto soccorso non c'è spazio per imparare con calma. O ti adatti oppure crolli. Ogni viso che incrociavo sembrava chiedermi: «saprai aiutarmi?» Ed ogni volta mi sentivo come se non avessi mai abbastanza risposte. Quel giorno non faceva eccezione. L'agitazione era palpabile: il rumore dei macchinari si mescolava al brusio delle voci, i passi frenetici scandivano il ritmo di una giornata che sembrava non avere mai fine. La tensione si respirava nell'aria, insinuandosi in ogni gesto e decisione. Era un disordine organizzato, un flusso incessante che richiedeva attenzione costante. Eppure, nonostante tutto, qualcosa mi spingeva a restare. Forse era la consapevolezza che, nel mezzo di quel caos apparente, ogni gesto contava. Anche il più piccolo contributo poteva fare la differenza. E così, giorno dopo giorno, continuavo a rispondere a quella chiamata, affrontando l'imprevedibile con una determinazione che non sapevo di avere. Ogni tanto, il suono di una sirena in lontananza annunciava l'arrivo di un nuovo paziente. Il cuore di tutti accelerava. I medici, senza perdere un colpo, si spostavano velocemente, come se fossero automi programmati per rispondere alla chiamata dell'emergenza. In quel caos, la comunicazione avveniva attraverso segnali rapidi, sguardi, gesti che non richiedevano parole. Ogni persona lì dentro era impegnata a cercare di salvare un altro respiro, un'altra vita, ma non c'era tempo per riflettere Ricordo che fui il primo del mio turno ad arrivare, accolto dai volti stanchi dei colleghi del pomeriggio. Mi osservarono come fossero ostaggi di guerra e io il loro salvatore. «È arrivato il cambio!» qualcuno di loro esultò. In breve, sparirono tutti gli OSS. La stanza dei codici rossi per fortuna era vuota ma la sala, invece, era piena. Nel triage lo spazio era gremito di gente sulle barelle, messe in modo del tutto casuale, non lasciando spazio per poter raggiungere la postazione atta ad effettuare gli ECG. Purtroppo, sembrava non esistere una postazione alternativa per quelle barelle; la speranza era che quei pazienti venissero chiamati presto per accedere alla sala, liberando così lo spazio tanto agognato. La speranza, tuttavia, non è una certezza e la preoccupazione di dover effettuare ECG in quella incresciosa condizione mi trasmetteva uno stato di lieve agitazione. Decisi di entrare nella sala per verificare la presenza di box con barelle vuote e notai che c'erano dottori che si davano consegne mentre altri aspettavano ancora il loro cambio. A quella visione la mia agitazione aumentò. Il primario, Roberto Pedone, osservava la situazione in religioso silenzio. Il suo sguardo fermo e deciso sembrava quello di chi sa sempre cosa fare. Eppure, giorni addietro, avevo udito dalla sua bocca la frase “la medicina non è una scienza esatta!”. Se le stesse parole le avesse pronunciate un'altra persona le avrei considerate una mera opinione. In quel caso, invece, le stampai dentro di me. «Caputo!» disse con tono fermo. «Dica dottore» risposi tenendo lo sguardo basso. «C' è un ricovero da portare in medicina. La cartella è lì» aggiunse indicandomi il tavolo posto al centro della sala. Aprii la cartella clinica del paziente per sincerarmi non mancasse nulla. Cercai la persona e, dopo averla trovata, mi accinsi a trasportarla con barella, flebo e una bombola di ossigeno. Mentre a fatica spingevo tal groviglio, Cuono, un infermiere basso con i capelli impomatati denominato Pomatino per questa sua peculiarità, mi ordinò, come se mi stessi crogiolando, di fare un ECG. Il primario sentì ed intervenne. «Non può, sta andando a fare un ricovero!» L'infermiere tacque. Dopo un po' arrivarono anche gli altri miei colleghi. Sul tavolo dove avevo preso la cartella del ricovero, si erano aggiunte delle richieste di alcune TAC e radiografie. Come se fossero pagine di sesso opposto su un'isola deserta in breve tempo si moltiplicarono. Purtroppo, dalle 19 :45 alle 20: 15 in radiologia spesso non accettano più pazienti, quindi le richieste si accumulano. Questo perché alle 20:00 c'è il cambio turno. |
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