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Autore: Ares Devinar
Titolo: La radio non mente
Genere Autobiografico
Lettori 202 2 2
La radio non mente
Sono nato a Gorizia il 14 agosto del 2003.
Dicono alle ore 22:22, ma non ci ho mai fatto troppo caso.
La verità è che non ricordo quasi niente dei primi mesi, come d'altronde, credo, in tanti siano come me, per i primi giorni di vita.
Abbiamo la fortuna che qualcuno ci racconti e riporti gli avvenimenti del periodo neo natale.
I miei primi ricordi erano sfocati, come se tanti periodi fossero avvolti da un buco nero, tale da non farli emergere, tenendoli sepolti.
Più il tempo passava, più cercavo di scovarli e carpire il più possibile, però quello che ricordo con certezza è che da un lato c'erano sempre mia madre, i miei nonni (paterni e materni), gli zii (materni e paterni). Sempre presenti, pronti a supportarmi, a starmi vicino in ogni momento, con il loro amore e la loro presenza, i consigli, ma dall'altro lato...
Non c'era mai, o quelle poche volte che si faceva vedere, era solo toccata e fuga nella mia vita.
La mancanza di quel legame che per un bimbo è essenziale e deve essere forte, era nullo, quella sicurezza che doveva donare un padre, era inesistente, non è mai esistito un punto di riferimento, un porto sicuro.
Un bimbo cerca ogni giorno l'affetto, le sicurezze, quello che non ho mai ricevuto da parte sua, a causa di queste mancanze la mia autostima era praticamente a zero.
Se ci fosse stato lui presente, mi avrebbero dato la forza di vivere sereno e credere più in me, ha lasciato un vuoto che mi sono portato dentro per anni.

Uno dei primi eventi che mi segnò era sentirmi diverso dagli altri miei coetanei, troppe volte giudicato senza che nessuno cercasse di capire chi fossi davvero, messo alla gogna sociale in difficoltà.
Fin da piccolo, ho dovuto fare i conti con i pregiudizi degli altri, sentendomi dire nomignoli e insulti gratis, tipo “asino” e tante altre frasi irripetibili.
Erano delle espressioni che sembravano dette per caso, ma umiliavano e ferivano, mi colpivano nel profondo.
Mi hanno distrutto l'autostima e per tanto tempo ho creduto di essere davvero quello che mi veniva detto.
Però, in qualche modo, sono riuscito a non cedere nel baratro della depressione.
Forse è proprio per questo che sto scrivendo questo libro: per aprirmi e avere una svolta positiva!
Esplicando a chi legge che non sono solo le esperienze dolorose adolescenziali a segnare una persona, ma esse possono renderci più forti, riuscendo a scoprire nuove passioni, per sopperire al mondo circostante.
Sono quei bivi, che ti spingono a non mollare mai, a cercare un posto nel mondo dove situarsi, anche quando sembra impossibile trovarlo.
La radio è stata l'ancora di salvezza, in un circondario dove tutto mi faceva sentire sbagliato, lei invece era il mio punto sicuro, non mi ha mai abbandonato.
La passione per questo intrattenimento è nata fin da quando ero bambino, ricordo le ore passate con mio nonno, a sperimentare se era meglio la televisione o la radio, ma piacendomi la musica, la migliore emittente era proprio la radio, dove potevo ascoltare tanti brani.
Successe una cosa strana, quando sentii per la prima volta “Lo Zoo di 105”, qualcosa dentro di me cambiò, trovando un linguaggio che capivo, un mondo in cui finalmente mi sentivo parte integrante di qualcosa.

Da quel momento in poi ho cominciato a sognare di diventare, da grande, un conduttore radiofonico.
La radio è stata una compagna fedele, soprattutto durante le scuole superiori, un periodo in cui ho sofferto parecchio, sono stati anni difficili, perché mi trovavo in un contesto in cui mi giudicavano come “quello strano”, “quello pazzo”, diverso dal gregge, mi prendevano in giro, solo perché invece di fare le “marachelle”, o parlare di cose da ragazzi, io discutevo di politica, arte, filosofia e per i miei coetanei sembravano discorsi da vecchi.
Per fortuna c'era lo speaker, sempre presente, punto di riferimento, pronto a farmi sentire la voce amica, a farmi sentire meno solo.
Quando credevo di non appartenere a questo mondo, la radio mi ha fortificato, facendomi sentire meno solo, dove potevo interagire, potendo dire anch'io la mia opinione, essendo così

L'adolescenza

Il peso delle aspettative

L'adolescenza è uno dei periodi più complessi della vita di chiunque credo.
Per me, è stato un periodo di lotta continua interiore ed esteriormente, un continuo tentativo di trovare il mio posto, di capire chi fossi davvero.
Questo è stato un momento della vita molto particolare, in cui tutti avevano una visione chiara del futuro, una direzione da seguire, i progetti per cui andare avanti, invece io mi sentivo perso, come se fossi fuori posto, come se non fossi ancora riuscito a capire davvero cosa volevo dalla vita.
Quasi come se fossi rimasto intrappolato in una fase di transizione, che non riuscivo a superare.
Ero quel ragazzo “strano”, che non riusciva a entrare nel giro, preferendo discutere di politica, invece di parlare delle ultime tendenze o dei “pettegolezzi da corridoio”.
Non mi adattavo ai discorsi superficiali, tra i banchi di scuola, non mi interessava essere parte del gruppo per il solo fatto d'essere accettato.
Quella sensazione di sentirsi diverso da tutti era quasi mentale, come se il cervello ragionasse in maniera da adulto.
Io ero sempre a disagio, come se il mio corpo fosse un intruso, in un mondo che non mi corrispondeva.
Spesso ero giudicato, mi etichettavano come “pazzo”, “alieno”, quello che non sapeva “come divertirsi”, solo perché non prendevo in giro un mio coetaneo o gli facevo i dispetti.
Mi guardavano con quella sorta di pietà, che solo gli adolescenti sanno riservare a chi non rientra nei loro schemi.
Le risate degli altri compagni mi facevano sentire ancora più distante, più fuori luogo.

Il mio posto sembrava altrove della scuola, come se fossi stato destinato a vivere in una dimensione parallela, dove il mio modo di pensare lo capivano solo gli adulti e non era compreso da quelli della mia età.
Eppure, non riuscivo a cambiare il mio modo d'essere, non riuscivo a far finta d'essere un altro e adattarmi a un mondo che non sentivo mio, sembrava quasi di barattare la mia identità per un'apparenza che non mi apparteneva.
Quegli anni, sono stati quelli in cui ho cominciato a capire che la mia passione per la radio non era solo un passatempo o una fuga temporanea dalle difficoltà, ma qualcosa che faceva parte di me.
Non era solo una distrazione dai problemi quotidiani o dalle difficoltà a relazionarmi con gli altri, ma la radio era un'ancora di salvezza, una fonte di forza, d'energia.
Ogni volta che l'accendevo, sentivo che il mondo fuori poteva essere uguale a me, guardando le cose da tanti punti di vista; era in grado di parlare un linguaggio che riuscivo a capire, una realtà che mi dava forma, facendomi sentire parte integrante di questa società.
Esisteva una strada, in cui io avevo una voce, un ruolo, in cui potevo essere me stesso senza pregiudizi, senza essere denigrato, finalmente essere parte integrante della realtà, sentendomi libero di esprimere me stesso in serenità.
La radio non mi ha mai giudicato, mai messo in un angolo, finalmente non ero solo, mi si era aperto un altro mondo, una connessione sincera e vera, una comunità che non avevo trovato altrove.
Ogni volta che ascoltavo un programma, mi coinvolgeva, pensando e riflettendo, riuscendo a regalarmi una risata.
Desideravo essere una di quelle voci che trasmettevano nelle case delle persone serenità, riuscendo a far sentire la loro presenza in modo tangibile, anche se solo per pochi minuti al giorno e pensavo: “Questo è ciò che vorrei diventare!”.

Desideravo essere uno speaker radiofonico, portando amore e serenità nelle case.
Volendo trasmettere la stessa sensazione di connessione che vivevo, speravo che in un futuro potessi anch'io adempiere a questo lavoro.
Ma, come spesso accade, le cose non sono mai facili, nei corridoi della scuola, tra le chiacchiere, gli scherzi e i pregiudizi, mi sentivo invisibile.
La scuola superiore è stato un periodo che ricordo con fatica.
Non riuscivo a trovare un equilibrio tra quello che sentivo d'essere e quello che gli altri si aspettavano da me.
Non riuscivo a capire cosa volessi veramente e allo stesso tempo mi sentivo in un continuo conflitto con chi cercava di forzarmi ad essere qualcun altro.
Le risate alle mie spalle non erano le uniche ferite che mi portavo dietro.
Ogni giorno era uno scontro, quella battaglia contro la pressione d'essere come gli altri, per essere accettato, dovevo abbandonare una parte di me.
Non sapevo se resistere alla mia integrità o se cedere per non essere più deriso, ma il prezzo per essere “normale” era troppo alto.
La mia più grande paura dell'adattamento, sarebbe stato perdere me stesso, negare al mio animo, quello che veramente ero, avrei perso quella parte di me che dava speranza al cuore, dandomi una ragione per non mollare.
Eppure, nonostante tutto, non ho mai smesso di cercare una via di fuga.
La radio, quella vecchia compagna, che mi accompagnava fin da piccolo, era sempre lì.
Mi ricordo le nottate passate a fare zapping tra le stazioni, a cercare un programma che mi facesse sentire meno solo, che non fossi l'unico a pensare diversamente dai miei coetanei, a vedere il mondo in un altro modo.

La radio dava il senso di appartenenza, molto spesso quella parte mancante alla quotidianità.
Era il mio rifugio, la mia bolla, la zona serena, di tranquillità in mezzo al caos, dove potevo essere me stesso, senza paura del giudizio altrui, non c'era bisogno di fingere, non ero costretto ad amalgamarmi per poter essere ascoltato.
Udivo attraverso delle cuffie le voci degli speaker, i loro programmi mi rendevano partecipe, seppur attraverso delle casse, condividevo una connessione con il mondo esterno, interagendo con loro con i miei interventi radiofonici.
C'era una verità in quelle parole, i conduttori mi facevano sentire bene, ignaro della loro personalità, ma con i loro discorsi mi sembravano uguali a me.
Ogni volta che sentivo una programma che mi toccava arrivava dritto al cuore e pensavo: “Questo è ciò che volevo fare, mi sarebbe piaciuto parlare alla gente di tutto il mondo”.
Il mio obiettivo era diventare come loro, trasmettendo alla gente che esistevo anch'io passando un messaggio di speranza.
La radio non è stata solo un passatempo, è diventata una speranza, una motivazione per superare i giorni impervi.
Mi ha fatto capire molte cose (anche se il mondo intorno a me non riusciva a capirmi, esisteva un altro mondo che mi accoglieva), era uno spazio che andava oltre i limiti di scuola, amici e aspettative.
La musica, le voci, i discorsi, le storie di chi ce l'aveva fatta, quella gente che riusciva a parlare di politica, cultura, filosofia, di cose vere, di situazioni che mi appassionavano.
Quella era la mia vera casa, il mio rifugio, il mio spazio di libertà e in quel periodo di solitudine, quando il resto del mondo sembrava girare in modo diverso, la radio mi aveva fatto sentire che tutto sarebbe potuto cambiare.
A volte, la paura che la mia vita non avrebbe mai avuto un vero significato mi destabilizzava.
Ma la radio mi faceva sentire che esisteva un modo per
cambiare, per entrare in quel mood e contribuire a renderlo migliore, più interessante, più vero.
In quel caos adolescenziale, non era solo un mezzo per evadere, ma una sorta di promessa, un obiettivo a cui aggrapparmi pensando che vedevo il mio futuro più roseo.
Ares Devinar
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