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Writer Officina Blog
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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |

Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |

Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
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Non è un buon giorno per morire
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L'alba dello scorpione.
Incubo a Hyakkendana.
Era la notte perfetta per un agguato. Fu questo il primo pensiero della bionda dai tacchi vertiginosi, l'Imperatrice, colei che regnava nel sangue e nelle tenebre, signora incontrastata di tutte le creature demoniache. Persino in quella strana dimensione onirica, familiare e al contempo disturbante, dove era precipitata quando le luci si erano spente. E adesso si ritrovava lì, avvolta nel silenzio, in un fazzoletto di terra infernale dove le strade erano desolate e le serrande malconce sbarravano gli ingressi di negozi distrutti. Nessuna stella in cielo e nessuna luna nel cuore. Il coprifuoco non permetteva fantasie romantiche né sogni struggenti. La voglia di uccidere prosperava rigogliosa in quella landa ostile. Continuava a camminare veloce, sicura di sé, avanzava tra gli edifici in rovina, libera e audace. Non aveva paura di niente, la pupa. Della solitudine, forse. Ecco, di quella sì. E per un attimo si fermò a osservare il suo riflesso attraverso una vetrina lesionata che raccontava di umane miserie e di indicibili catastrofi. Anche lei non aveva un gran bell'aspetto. Forse era per via del conflitto o magari per la cicatrice sul collo. Quale delle due ipotesi era giusta? La mente, confusa, faceva fatica a mettere insieme i pezzi. Aveva bisogno di riposare. E invece proseguì mossa da un istinto primordiale inestinguibile. Ogni tanto, agli angoli di un marciapiede, prendevano vita fuochi fatui che si spegnevano al suo passaggio. “È tutto così deprimente. Sarà colpa della guerra che ha annientato ogni promessa di felicità”, disse a voce alta l'Imperatrice mentre si stringeva nel suo lungo trench demodé. E si rese conto, con sconcerto, di non sapere neppure di quale guerra stesse parlando e dove fosse finita. Il corpo eseguiva in autonomia, mirabilmente, i passi di una danza già provata, ma la mente no e la stava tradendo. Ancora e ancora. Si guardò intorno. Prese tempo. Annusò l'aria. E poi le brume si dissolsero. Era a Hyakkendana, dove si esibivano i migliori jazzisti del mondo. E il suo ragazzo. A Tokyo, dunque. Sorrise. Lo sguardo si accese di colpo. E pensò che aveva proprio una gran voglia di rivederlo, anche se si erano lasciati male. Lo avrebbe cercato all'Avoid Note. Dove altrimenti? Le strade si susseguivano interminabili e quel dolore antico, come una dannata spina, tornava a graffiarle il petto, le sinapsi, le viscere. E a darle nuova vita. Infine, arrivò. Si sistemò i lunghi guanti di pelle nera, come una dark lady degli anni Quaranta. E soltanto dopo, con studiata lentezza, come imponeva il suo rango, entrò. Da un altoparlante le note di It's All Forgotten Now di Al Bowlly riscaldarono a dovere l'atmosfera. Il locale era vuoto, la vamp si fece largo tra tavoli e sedie messe alla rinfusa fino a raggiungere il suo uomo. Uomo... forse era una parola grossa, troppo audace e menzognera, ma in quei tempi di isolamento, di carestia e di stravaganza non bisognava andare tanto per il sottile. Era girato di spalle, il leggendario Hitoshi Tabata, jazzista e killer di esseri sovrannaturali che giocava- no a scacchi con il Tristo Mietitore, al soldo funesto dell'Ordine di Legato, l'organizzazione segreta che si occupava di porre fine all'esistenza di queste disperate creature traviate con la tendenza melodrammatica e anche un po' di cattivo gusto a non voler morire. Titoli altisonanti che conferivano un'allure di fascino e di mistero a quello scricciolo disagiato che indossava orecchini strampalati e sfoggiava un eccentrico taglio di capelli. Per lei restava semplicemente il suo caro Hitoshi, il bambino che aveva visto crescere troppo in fretta. L'assassino stava afferrando, seduto lì al bancone, forse per l'ennesima volta a giudicare dal tremore della mano, una bottiglia di whisky. Poi, si fermò di scatto. Si accorse di lei prima ancora di adocchiar la, la vide come la sognava da molte lune e come la bramava, malgrado tutto, da logoranti giorni interminabili. Con lo stesso stupore di un pargolo che chiude gli occhi e si ritrova improvvisamente grande, con scarpe strette e vestiti troppo larghi. La mano restò sospesa nell'aria in attesa di un'esecuzione, ma di quale natura Hitoshi non avrebbe saputo dirlo. Era tutto incerto in quello strano tempo che li vedeva protagonisti per prendere decisioni. E intanto versò con accuratezza altro liquido ambrato nel bicchiere, infine allungò il braccio, senza dire una parola. L'Imperatrice declinò l'offerta. Estrasse dalla tasca del trench un portasigarette in argento, finemente decorato. Il fumo causato dalla bionda scorreva tra i due come una barriera invalicabile e bruciava gli anni che erano stati. E fu allora che gli occhi della donna incontrarono quelli del ragazzo allampanato. “Scommetto che ti stai chiedendo come ho saputo delle tue intenzioni di farmi diventare triste... L'ho sentito dire in giro che non saresti stata mia ancora a lungo e sto per perdere la testa”, disse Hitoshi recitando come se fossero versi epici le parole di I Heard It Through the Grapevine. Marvin Gaye era più che appropriato nel bel mezzo di quella riunione di famiglia surreale. L'Imperatrice, tuttavia, non era dello stesso avviso. “Siamo ancora alle citazioni musicali? Pensavo che avessimo superato questa fase”. “Perché, si supera mai qualcosa a questo dannato mondo, Madre?” L'aveva sempre chiamata così, straziato dal bisogno di amore, ma a unirli era stata la morte. Il suo sguardo, come quello di un Pierrot tragico, smarrito nella notte di un pittore melanconico, non smetteva di accusarla. Eppure, le fiamme che divampavano in quei due pozzi oscuri, raccontavano un'altra storia. Piena di enigmi e di passione. “Ti trovo di magnifico umore. Come sempre”. “Come hai fatto a scovarmi?” La femme fatale sollevò le labbra voluttuose. “Tu mi hai chiamato”. “Stai mentendo”. “Io non mento mai. Sai perché sono qui. Perché entrambi siamo qui. Ma non ha importanza, adesso. Fra poco sarà il tuo compleanno. Ricordati di esprimere un desiderio. È molto importante. Lo farai, Hitoshi? Lo farai per me?” Lui non l'ascoltò neppure. Iniziò invece a picchiettare la sua fronte, forse seguendo gli ordini sinistri di una voce arcana. “Questo posto sembra la dannata loggia di Twin Peaks. Ti rivedrò ancora? Tra venticinque anni, come la povera Laura Palmer?”, e iniziò a ridere senza freni inibitori. “Di citazione in citazione, facciamo immaginifici progressi”. Dopo una lunga pausa eloquente, la crudele domatrice aggiunse sottovoce: “Non abbiamo molto tempo...” Hitoshi strizzò più volte gli occhi, come per mettere a fuoco qualcosa. Improvvisa, arrivò di nuovo quell'interferenza che gli spezzava il respiro e lo ingannava, mettendo altro caos tra i suoi pensieri. “L'orizzonte degli eventi è stato alterato, dobbiamo impedirlo. Lei...” Dissolvenza, rumori, schianto di folgore. Realtà. O forse no. Chi aveva pronunciato quella frase? La donna che aveva di fronte o un'altra entità? L'interferenza terminò e restarono solo le parole della sua magnifica ossessione. “Allora, te lo ricorderai? Hai capito?” E ovviamente la risposta fu come sempre la stessa. No. Hitoshi non aveva ascoltato, non lo faceva mai, e ora andava avanti per la sua strada perdendosi tra note stridenti che volteggiavano leggiadre nella sua mente distorta. “Tu... non capisci... il Male è qui, da qualche parte nella mia testa. Non c'è modo di sconfiggerlo. L'hai vista, l'hai vista anche tu nel cielo? Quella nuova luna rossa ci unirà in una confortante, leziosa, ineludibile, aporia, Madre. Il tuo assassino sarà anche il mio”. La maliarda lo fissò. Il suo nefasto piano procedeva a gonfie vele. In ogni linea temporale e malgrado gli assalti della forza ostile, principio regolatore e dissolutore dell'universo. Sorrise soddisfatta. Come se si ridestasse da un sogno, Hitoshi la squadrò perplesso e le chiese: “Quale orizzonte? Tu lo sai?” L'Imperatrice non rispose, il suo sguardo ipnotico si concentrò sulla custodia per sax che il cacciatore aveva sistemato con una certa cura sotto lo sgabello. “Non è una buona serata per uccidere, cucciolo mio. Dobbiamo tornare indietro. È tutto sbagliato”. Estrasse dalla tasca un proiettile d'argento e lo depose sul bancone, accanto al bicchiere di whisky. “Per ritrovare la strada di casa. Conservalo per un giorno di pioggia. Conservalo in mio ricordo. La memoria è tenace. Ci rivedremo ancora. A Londra, sotto la costellazione dello Scorpione”. Dopo aver pronunciato tali parole, Nostra Signora degli Abissi aggirò d'incanto la distanza tra loro, l'obbligò a fissare i suoi occhi, infine lo strinse tra le sue braccia, che erano come ali di pipistrello, trascinandolo proprio dove Hitoshi non voleva. Nel rosso di un amore che era già nostalgia e che era costato rancore e perdizione.
I Tokyo, autunno 2008
“Per dimostrarti che è reale”, disse a sé stesso Hitoshi, girando e rigirando tra le mani il proiettile d'argento che conservava come una reliquia nella custodia del suo sax. Era seduto su un bidone della spazzatura in un anfratto di Kabuchiko, il variopinto quartiere a luci rosse di Tokyo che mescolava con baldanzosa arroganza odori e piaceri, soldi e sangue, pur non di- sdegnando un tocco bohémien, come dimostravano i cento bar dalle bizzarre porte decorate di Golden Gai. Il cacciatore era in attesa di entrare in azione, mancava poco ormai. E nel frattempo, rimuginava a voce alta sugli incubi di cui era vittima. “Potresti fare meno rumore quando pensi? Sta- remo dormendo qui!” esclamò qualcuno che, fino a quel momento, aveva ascoltato in silenzio il lungo, snervante, soliloquio del killer con la passione per il jazz, restando acquattato tra due bidoni poco più avanti. Era Kanae il barbone che l'arrivo molesto di Hitoshi Tabata aveva strappato dalle braccia lievi di Morfeo. Nell'udire la voce dell'estraneo, l'assassino non sobbalzò, ma restò a fissarlo senza parlare. Il povero diseredato aveva l'aria stanca dei vecchi, anche se non doveva avere neppure sessant'anni, la barba in- colta e due occhi tristi, troppo buoni per trasformarlo nel criminale di turno, ma al mondo non vi erano mai certezze di sorta. L'apparenza, Hitoshi lo sapeva bene, ingannava. In ogni tempo e luogo. “Scusa, non volevo disturbarti”, disse il cacciatore di vampiri dopo un lasso di tempo interminabile. “Ormai è fatta”, rispose il barbone facendo spallucce. Poi si mise in piedi, abbastanza velocemente, e si avvicinò all'intruso studiandolo a sua volta. “Mi dispiace, è una brutta serata”, si giustificò il killer. “Tu rimugini troppo”, sentenziò Kanae. “A te non succede mai?” “Cosa?” “Di rimuginare”. “Cerco di evitarlo, invecchia precocemente la pel- le”. E improvvisamente, dopo aver riso come un matto per una frase che aveva la forza parossistica e irritante di un aforisma mal riuscito, senza un apparente filo logico, l'assassino iniziò a parlare. “Anche la sofferenza invecchia. Il mio tormento mi sta distruggendo.” Che cosa si poteva dire di più o di diverso – pensò con sgomento Hitoshi - di un amore che era durato ventidue anni, un mese e tredici giorni e che aveva superato indenne la distruzione, la morte, l'odio e il sangue? E poi prese coraggio. Iniziò dall'inizio. “Si chiamava Sybil. Non è mai esistita, se non nella mia testa, dove ancora regna come signora incontrastata. Nel nome di un'ossessione, ho consegnato qualcuno che amavo alla morte”. Si fermò per un istante, per non lasciarsi travolgere dalle emozioni. “Ho ricevuto una buona educazione, avevo un padre amorevole che mi ha sempre incoraggiato. Poi è arrivata lei, la Regina Cattiva. Lo ha stregato, si è fatta mettere l'anello al dito, lo ha incantato con le sue bugie. E per noi è stata la rovina. È morto per colpa sua. Non è stato un incidente. Lei lo ha ucciso. Io ero lì. E sono rimasto fermo negli anni Ottanta. In attesa di una vendetta che non ho veramente agognato. O rincorso. Sogniamo il futuro eppure parliamo ai giorni del passato. E confidiamo in essi. Sapendo di andare incontro alla disfatta. Amore, ambizione, il sangue, persino la vendetta... tutte chimere. Ogni frammento è un maledetto ricordo, la nota che ci sfugge e che non ci permette di concludere la composizione musicale che abbiamo costruito nella nostra mente. È tutto sbagliato. Solo la terra, dalla quale veniamo e alla quale ritorniamo, ci appartiene davvero”. Una lacrima solitaria scivolò lungo il viso. “Mensonges, mensonges...”, blaterò in francese rovinando così la sua mirabolante incursione negli abissi della filosofia. Sentì il bisogno di mettere una sorta di distanza tra lui e il ricordo degli eventi dolorosi che aveva vissuto da bambino, fece una pausa e si accese un'altra sigaretta. Era quello l'effetto che gli faceva persino adesso, a distanza di anni dal loro addio, l'Imperatrice. “Brutto affare...”, disse Kanae scuotendo il capo. “Questo fuoco mi sta distruggendo. Non c'è maledetto istante in cui non pensi a lei. Ogni giorno fingo che non sia mai esistita e ogni notte torna a tormentarmi. Sarò libero quando la puttana morirà”. Seduto su quel bidone della spazzatura, in un anfratto angusto di Kabukichō, Hitoshi Tabata si stava perdendo tra vecchie memorie e confessioni improbabili e aveva quasi dimenticato che doveva portare a termine un incarico, accoppando, con discrezione, un vampiro che si aggirava tra gli hostess club, i discutibili locali privati, attrazione turistica per eccellenza della zona. A ordinare il delitto era stato uno dei pezzi grossi della yakuza, Eito Takara, che credeva nel paranormale e nel potere catartico del rancore con la stessa intensità. Soprattutto dopo che alcuni mesi prima l'amata Zoé gli aveva rivelato la natura demoniaca del suo cuore immarcescibile. E nel ripensare alla sua amicizia con il grande, ineffabile, Takara, Hitoshi non poté evitare di ricor- dare la notte in cui aveva salvato la vita al boss. Era una gran bella storia, il suo incarico poteva quindi attendere ancora un altro po'. |
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