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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |

Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |

Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
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La melodia del Fico d'India
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Il vento le sbatté contro appena uscì sul ponte. Si strinse nella felpa e si diresse senza indugio al parapetto scrutando l'oscurità. Basse onde, quasi oleose da quanto sembravano dense e calme, si aprivano all'incedere maestoso della nave senza riuscire a schiumare neppure all'infrangersi sulle fiancate. Qualche sporadica luce intermittente, laggiù verso l'orizzonte, cercava di imporsi a quella massa scura, incombente, del tutto uniforme che pareva avviluppare l'intorno quasi che cielo e mare fossero un tutt'uno sebbene lontano, verso est, si avesse l'impressione di un cedimento dorato per il sopraggiungere dell'alba. Tutte le volte che tornava alle Eolie metteva la sveglia alle quattro e mezzo del mattino per l'ansia di non perdere lo spettacolo, in quel mondo buio, del comparire della sagoma, ancora più oscura, dello Stromboli. Un vulcano in forma di montagna come la possono disegnare i bambini: un cono con la cima mozzata da cui esce un perenne cappello di fumo che si condensa in nuvole minacciose che, solo agli occhi di pochi fortunati, si trasforma in bagliori e alti lapilli di fuoco. Nessuno può dimenticare questo spettacolo tanto ti entra dentro: in una atmosfera rarefatta dove il silenzio è rotto solo dallo sferragliare e brontolare del motore della nave, ti accorgi appena delle poche persone che, come te assonnate, a mò di zombi, si muovono incerte scrutando l'oscurità fino a trasformarsi in uomini e donne mano a mano che, quel monte nero, inizia ad animarsi rivelando di sé contorni e colori. E allora, ecco, tutto l'intorno riprende a palpitare, a divenire vitale, e le esclamazioni si sostituiscono al silenzio in sintonia con i bagliori dei flash dei cellulari che infrangono il buio. Lei – nonostante fossero innumerevoli le volte che aveva compiuto quella traversata – ne restava conquistata e attendeva quell'incontro – che suggellava l'inizio delle ferie estive – con la stessa intensità e muta riverenza di quando ci si avvicina alla statua del dio a cui si è offerto il proprio credo e la propria vita. Non importa il vento, a volte persino gelido anche in agosto, o la pioggia che spesso accompagna gli ultimi turisti settembrini o, ancora, quel puzzolente fumo di macchine strombazzanti che esce dai fumaioli e che, bastardo, riesce a impregnarti qualunque sia il posto dove cerchi di nasconderti. Restava ferma, completamente impregnata di quell'atmosfera che le faceva rivivere, come un déjà vu, tutte le volte che era sbarcata sull'isola a iniziare dalla prima. Allora era in viaggio di nozze e l'isola di Stromboli l'aveva accolta quando ancora il silenzio della notte non era stato cancellato dalla vita del giorno. Alle sei del mattino non vi erano turisti a zonzo, i bar erano chiusi e solo qualche pescatore tornava con la barca che tirava su, a fatica, sulla battigia della spiaggia nera. Non vi era molo allora per far approdare una nave, e una barca a remi, condotta da un uomo solo, si affiancava al traghetto e, in maniera del tutto rocambolesca, ‘raccoglieva' i passeggeri – e mai verbo fu più azzeccato! - per sbarcarli sulla spiaggia di Ginostra. Persino con il mare mosso quel barcaiolo non esitava a fare il proprio lavoro - e il cuore tornò a batterle con lo stesso sgomento e la stessa eccitazione al ricordo di quando, molti anni prima, su quell'esile imbarcazione che ondeggiava pericolosamente tra flutti del tutto bizzosi in quella tarda nottata, era stata trasbordata una coppia di cui uno portava una gabbia con un canarino e l'altra una sportina con un gatto tenuti entrambi così precariamente per il rollio dell'imbarcazione che tutti coloro che stavano assistendo allo spettacolo dal parapetto della nave, non avrebbero scommesso una lira per la felice riuscita di quel trasbordo. Già qualche donna aveva iniziato a gridare: «liberateli, l'uno volerà e l'altro nuoterà...» e, invece, alla fine, quel mare – quasi ritraendosi da un confronto a cui aveva perso l'interesse – aveva ceduto al barcaiolo consentendogli di approdare con buona pace di tutti. Adesso il molo era stato costruito e la nave vi ormeggiava in tutta sicurezza. Mano a mano che il sole avanzava nel cielo l'ombra scura di Stromboli perdeva la sua immagine austera iniziando a rivelare altri colori: il giallo delle ginestre che si inerpicavano lungo i fianchi del monte fintanto che le sciare delle passate eruzioni lo consentivano; sentieri tracciati tra gli arbusti e rocce nere; il viola e il rosso delle buganville che emergevano dai giardini delle case, i cespugli di ibiscus e gli oleandri che, pur restando confusi in quella profusione di natura sempre selvaggia, l'avevano ammaliata, quella prima volta, con la loro esuberanza e profumo. Si stiracchiò, inspirando a pieni polmoni quell'aria beandosi al calore dei primi raggi del sole. Ormai non era più sola su quel parapetto e già bambini si rincorrevano sui ponti e cani guardavano smarriti quella distesa d'acqua che riverberava un sole sempre più accecante, così diversa dai giardinetti sotto casa in cui erano usi essere condotti ogni mattina. Mano a mano che la nave lasciava gli attracchi prima di Panarea e poi di Lipari cresceva la sua attesa in un misto di esuberanza e di eccitazione nel vedere avvicinarsi Salina. Perché era a quell'isola che ogni estate si dirigeva costringendo i familiari a quelle vacanze ormai divenute abituali. Lo sguardo indugiò sui contorni dell'isola che sempre più nettamente si stagliavano all'orizzonte e inspirò profondamente nell'intento di carpire l'essenza fin dal suo primo manifestarsi; quando l'aria non era più componente indifferenziata di quel mare, di quell'ambiente, ma diventava ‘l'aria di Salina'. Della sua isola. Perché di questo si trattava. Le sue vacanze a Salina non erano semplici vacanze, bensì dei ‘ritorni', quasi dei pellegrinaggi. C'era qualcosa che, appena sbarcata dalla nave, l'assaliva: una strana sensazione di pace, di attesa e, al tempo stesso, di sicurezza come quella che si prova quando, dopo una faticosa giornata passata con gli altri, si rientra a casa e si chiude il portone alle proprie spalle. Tutte le volte che l'auto cominciava a inerpicarsi per la salita di Rinella verso l'interno aveva la sensazione di tornare a casa quasi ci fossero parenti ad aspettarla. Quasi fosse una migrante che, dopo tanto sostare all'estero, tornava in famiglia, pregustando di rivedere volti cari e luoghi che si erano portati nell'animo per lungo tempo. E, invece, nulla di tutto questo: non aveva alcun legame con il Sud e in particolare con quell'isola. Che diamine! Lei era Virginia, una veneziana trapiantata in Toscana e...allora? Anche quella mattina non tentò neppure di rispondere a questa domanda che ogni estate le si riproponeva prepotentemente, come fosse un rituale, quasi un ‘benvenuto'. Razionalmente, aveva imparato, da tempo, a non vagheggiare su oscure risposte, paga solo di sentirsi tornata a ‘casa' qualsiasi significato ancestrale questa sensazione potesse avere.
Inverno
Il fico d'india aveva quasi del tutto occupato la poca terra che preludeva alla spiaggia. Una spiaggia risicata al mare: più una striscia di sassi che altro, su cui radicava l'arbusto che il trascorrere del tempo aveva reso ligneo con pale contorte di un verde scuro. Molte pendevano dai rami trattenute da filamenti sottili che ne facevano presagire il cedimento. Altre giacevano a terra ed erano così sfilacciate da rivelare l'intelaiatura fibrosa di cui erano composte a testimonianza di quanto su di loro avessero insistito l'arsura e il sole dell'estate. Era inverno e la furia del mare si accaniva conducendo l'acqua della risacca a impregnarne le radici. Eppure, non pareva sofferente: era abituato da anni a frapporsi al vento furioso e alle onde che, nonostante il loro violento abbattersi, non erano riuscite mai a scalzarlo. Forse a disperderne i frutti settembrini ormai marci caduti ai suoi piedi e alcune pale destinate a germogliare laddove le onde le avrebbero depositate. Perché il fico d'India muore raramente e, quando non può farne a meno, soccombe sempre con onore. La pianta si ergeva fiera in quell'ambiente desolato fatto di grandi sassi dai colori tra il mattone e il giallo; più in là, verso la battigia, l'erompere del mare era riuscito a eroderne qualcuno dando vita, nel trascorrere del tempo, a una spiaggia comunque sassosa e scomoda. In quel mese di dicembre il vento spirava gelido e furioso e si abbatteva sulla pianta quasi dovesse scavarne la memoria.
Capitolo I – Di abbandono -Ci hanno venduto. Alla fine, ci hanno venduto! Le parole giunsero rincorrendosi tra i filari dei vigneti che si estendevano a ridosso della penisoletta su cui si ergeva la cittadina di Monombasia: un costone di roccia collegato alla terraferma da un braccio di mare che, con la bassa marea, diventava percorribile a piedi. Era una cristallina mattina di dicembre: il sole era alto e i raggi caldi illudevano su una primavera non lontana. Solo una tenue coltre di minutissime goccioline di brina sui rami e sulle poche foglie brunicce, ancora rimaste attaccate ai racemi, rivelava la stagione invernale. Erano in molti tra uomini e donne a lavorare di lena tra quei filari che si ergevano nella valletta, a ridosso del mare: chi potava i lunghi tralci delle viti, chi raccoglieva le risulte, chi dissodava il terreno intorno. Ma tutti si fermarono a quelle parole così cariche di angoscia e rabbia in attesa che, quell'araldo improvvisato, li raggiungesse per spiegare il suo annuncio. Tirata la barca a riva solo quel tanto da impedire alla risacca di tornare a ghermirla, Bepi si mise a correre verso i vitigni ballonzolando per la pinguedine che la casacca raffazzonata, non riusciva a celare e il tremolio della pancia accompagnava il suo avanzare. Correva con tutto il fiato che il fisico gli consentiva verso quel gruppo sparso il quale, ormai del tutto dimentico delle proprie mansioni, gli stava venendo incontro senza indugio. -Ci hanno venduto. La Serenissima ci ha venduto ai turchi – Nessuno commentò queste parole: nessuno osò chiedere altro perché tutti, da tempo, temevano ciò che sarebbe potuto accadere e che ora si era avverato. Solo un brusio soffuso, quasi un chiocciare querulo, venne a diffondersi in quel capannello che andava sempre più infittendosi perché altri uomini e donne stavano accorrendo dai vigneti più lontani. Il gruppo – non più di una settantina di persone – si chiuse a cerchio attorno a Bepi e l'iniziale brusio cedé del tutto al silenzio aspettando che l'uomo riprendesse la parola. Invece, parlò Mose. -Ve l'avevo detto; ora capite le parole di quel mercante...- chi aveva parlato era un uomo maturo ma non anziano, ancora prestante nella figura. Occhi azzurri brillavano su un volto dalla carnagione pallida che – come quella dei compagni – non riusciva ad abbronzarsi neppure sotto i raggi del sole d'agosto. Le mani forti, callose, dalle unghie crettate rivelavano il suo appartenere alla terra piuttosto che al mare. Era, infatti, un contadino della terraferma a ridosso di Venezia, là dove la laguna era stata costretta a ritrarsi concedendo lame di campi prontamente messi a coltura. Da quei luoghi proveniva la maggior parte dei veneziani che vivevano a Monombasia, una delle cittadine commerciali più importanti delle colonie della Serenissima, posta quasi sulla punta estrema del Peloponneso. Da almeno tre generazioni si erano assestati su quella costa dove coltivavano vigneti. Uomini e donne che andavano su e giù per lo stretto di mare che divideva il promontorio dalla terraferma, una distanza di neppure cinquecento metri in tutto. Partivano all'alba d'estate e a metà mattinata d'inverno ma sempre tornavano nelle loro case prima del calar del sole. Erano veneziani con il mare nel sangue sebbene pochi fossero così esperti da avventurarsi tra le sue onde oltre a quel tanto che bastasse a procurare la cena. Vivevano su quell'originaria isoletta, che isola non era più, e nei periodi e nei tempi imposti dalla coltivazione della vite, prendevano le barche – poco più che zattere chè il mare lì mai ribolliva – o a piedi, a seconda delle maree, raggiungevano la terraferma e quei vigneti che rappresentavano la loro principale sussistenza. Non appartenevano alla fascia sociale dei mercanti che si erano arricchiti con il commercio della seta grezza, delle spezie, della cera, del miele e dell'olio. Di fatto, e nell'intimo, erano rimasti contadini e alcuni di loro continuavano ad allevare pecore e capre. Erano i loro vigneti bassi, dai frutti di un giallo carico, ambrato da cui ricavavano un vino dolce al gusto, a rappresentare il prodotto più ambito dai mercanti veneziani che lo rivendevano a greci, turchi e genovesi. |
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