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Writer Officina Blog
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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |

Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |

Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
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Come Crisalidi
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Avevo 50 anni ed ero riuscito a venire fuori dalla depressione che mi era scaturita dalla consapevolezza di non essere nulla di diverso da quello che più o meno erano tutti. Un uomo con il suo Perché come un chiodo fisso in testa e con il desiderio di sperimentare cose sempre nuove e diverse. Stavo finalmente riassaporando la gioia di vivere. Ero tornato a casa. In ogni senso. Con il corpo, con la mente e con il cuore. Di nuovo mi sentivo pronto per affrontare la vita. Ancora avevo ricominciato a percepire quel formicolio che nasceva dal desiderio di buttarmi a capofitto in qualcosa di nuovo. Avevo un'altra volta cambiato pelle come i serpenti. Ed ero pronto. Non ero più l'uomo “unico” di un tempo, ma neppure l'uomo “anonimo” che mi ero sentito negli ultimi anni. Ero solo io. Ancora una volta Paola mi aveva permesso di riprendere il corso della mia vita con lei e con voi. Non mi rinfacciò mai quello che era accaduto, così come aveva fatto molti anni prima al mio ritorno dall'India. Non era gelosa del fatto che io non riuscissi ad essere pienamente uno con lei e con il mondo che ci eravamo creati. Aveva capito che qualcosa del mio essere interiore era solo mia. Che non avrei potuto condividerla appieno con nessuno, neppure con lei....o così almeno mi ha sempre fatto credere. Mi sono interrogato spesso su questo, molti anni dopo. Quando lei giaceva inerme in ospedale consumata dal quel tarlo oscuro che aveva colonizzato il suo corpo e che lentamente e inesorabilmente, giorno dopo giorno, la conduceva verso il trapasso finale. Ricordo quei giorni con immenso dolore, ma anche con grande pienezza. Forse gli unici giorni in cui io sono stato perdutamente e incondizionatamente suo. Al suo capezzale, a tenerle la mano e a ripercorrere ogni istante della nostra vita insieme. Ma anche allora non parlò mai delle mie “partenze”, dei miei “viaggi” a cui lei non aveva potuto prendere parte. Non ho mai capito se veramente lo avesse fatto perché anche lei in fondo era sempre stata uno spirito libero e non aveva mai concepito catene e gabbie in amore, o solo perché parlarne e rivivere quei momenti la faceva soffrire. Non me lo ha mai detto e io non ho mai avuto il coraggio di chiederglielo... Ma ogni cosa a suo tempo. Vi ho detto che volevo svelarmi completamente a voi e così ho intenzione di fare, fino in fondo. Ancora non è il momento di parlare di questa fase del mio cammino. Torniamo ai miei 50 anni e a quella dose di energia e adrenalina che sembrava essermi stata rimessa in vena dopo il lungo letargo vissuto prima. Fu allora che feci il grande salto e con un socio aprii il mio “Estetica Estatica”. Così lo chiamammo. La nostra creatura. Una clinica privata. Avevo finalmente la disponibilità economica, le conoscenze e l'esperienza per poterla realizzare. E la realizzai . Un luogo dove chi si sentiva sfregiato nel corpo poteva venire per costruirsene uno nuovo e con esso ricomporre anche il suo spirito e ricongiungerlo con l'Energia Universale. Vi unimmo chirurgia estetica, discipline di meditazione, corsi di yoga, di respirazione, chiamammo a lavorare con noi medici che praticavano medicine non convenzionali e avevano una visione olistica dell'uomo e delle cure. Fu veramente un'esperienza estatica. Furono anni di lavoro infaticabile ma di immensa soddisfazione. In quella mia creatura ritrovai anch'io uno forza spirituale che non avevo più forse dai tempi dell'India. Fabio ed io lavorammo incessantemente, giorno e notte, a questo progetto. Ci conoscevamo dai tempo dell'università. Avevamo dato i primi esami insieme. Poi le nostre strade si erano divise per ricongiungersi qualche anno prima all'ospedale dove ero diventato primario. Già dai primi tempi che avevamo ricominciato a frequentarci era balenata in noi l'idea di fare il grande salto. Ci trovavamo benissimo insieme. Eravamo due caratteri perfettamente compatibili, anche se diametralmente diversi. Io più creativo e predisposto ai contatti umani; lui più meticoloso e più adatto all'organizzazione burocratica. Eravamo diventati anche buoni amici oltre che colleghi. E quando si presentò l'opportunità vi ci buttammo dentro a capofitto. Ma quello che ne trasse solo svantaggi fu ancora il mio rapporto con la mia compagna. Ormai non eravamo più quell'uno indissolubile che credevo fossimo. I nostri pochi dialoghi vertevano solo su di voi, i nostri figli. Non condividevamo ormai nient'altro, né i nostri corpi né i nostri pensieri. Dormivamo nello stesso letto ma non solo non facevamo più l'amore ma neppure ci accarezzavamo; dividevamo la stessa casa ma non avevamo più un nido che ricalcava le nostre essenze. Solo un bellissimo luogo molto confortevole dove assecondare in tutta tranquillità i nostri bisogni corporei: mangiare, dormire e andare in bagno. Ma andava bene così. Io avevo il mio centro e mi bastava. Ero innamorato della mia opera e basta; o così credevo, almeno. Fino a quando entrò in scena Vittoria. Era una specializzanda che era venuta a fare tirocinio da noi, minuta e timida, sempre silenziosa ma bramosa di imparare i segreti di questo lavoro. In un primo momento passò inosservata. Parlava poco, ma passava ore ad osservarci, a seguire le nostre operazioni, a scrivere appunti. Era delicata e leggera. Il suo passo lasciava traccia come il rumore di una piuma che volteggia nell'aria. Dopo qualche mese la volli accanto a me negli interventi più complessi. Mi faceva tenerezza, mi sentivo come un padre. Mi sentivo quasi in dovere di darle consigli e di svelarle gli aspetti anche più reconditi di questo nostro lavoro. E lei era come una spugna, assorbiva ogni minima cosa; ora che avevamo più confidenza faceva domande, tante domande, osservazioni acute e a volte proponeva ella stessa soluzioni intelligenti ai problemi. Un caldo pomeriggio d'estate la invitai fuori a berci una bevanda fresca. Mi sentivo strano. L'idea di passare qualche momento da solo con lei ad un tavolino di un bar mi turbava, anche se non capivo ancora bene il perché. Vittoria, capelli lunghi ricci e mori, occhi neri come un pozzo senza fine, pelle chiara, esile e titubante. Quel giorno indossava jeans stretti che mettevano in mostra le sue forme ancora acerbe e una camicetta bianca, appena aperta sopra il seno. Un seno sodo e giovane. Mi ritrovai a fissarla e a sentire quel formicolio al basso ventre, come non mi ricapitava ormai da anni. Fu un attimo. Ricacciai subito quel pensiero, vergognandomi di me stesso e cercando di distogliere l'attenzione dal suo corpo e dal fremito che mi aveva provocato. Incrociai il suo sguardo in modo sfuggente e mi sembrò di vedere qualcosa...no, non era possibile, mi dissi. Lei, nemmeno trentenne, con la vita davanti e io cinquantenne di bell'aspetto, ma ingrigito dal tempo, con tanta storia ormai alle spalle e con poco ancora da sperimentare davanti. Era sbagliato, era terribilmente sbagliato...ma il formicolio continuava. Più lei parlava, della clinica, di alcuni pazienti, più io sentivo crescere un calore dentro di me, una forza potente che mi faceva ripiombare indietro nel tempo, a tanti anni fa. Un'energia che sembrava essersi svegliata tutta insieme, dopo essere stata sopita dentro di me tanto a lungo. Un'energia che a dire il vero pensavo ormai si fosse estinta dentro di me. Passarono non so quanti minuti, non saprei quantificarli. Mi sentivo come fuori dal mondo, in una bolla dove c'eravamo solo lei ed io. E quell'energia ritrovata. Quando stavamo per alzarci e tornare in clinica mi gelò con una domanda: “Credi nella reincarnazione? Nel fatto che ogni attimo che viviamo ci è stato messo davanti per darci la possibilità di crescere? Pensi anche te che tutto abbia un senso precostituito e che a noi spetti solo di imparare qualcosa da ciò?”....Oh mio Dio! Eravamo sulle stesse frequenze! Dimenticai tutto, il lavoro, il tempo che passava...mi sentivo incatenato a lei da lacci invisibili ma potentissimi. Le raccontai tante cose di me. Lei parlai dell'India, di quel'esperienza fantastica. Le dissi cose che non avevo mai detto a nessuno, neppure a vostra madre. Parlammo, parlammo e parlammo. Il tempo passò senza che ce ne accorgessimo. Quando uscimmo dal bar il sole stava per tramontare. Le sfiorai la mano; lei si girò di scatto e mi fissò. Fu una scarica di adrenalina. Dai suoi occhi era come se uscisse un raggio di energia che penetrava nei miei. Un attimo, poi ci salutammo. Quella notte sognai Vittoria. Al mattino, però mi dissi che era stato un momento, che con il nuovo giorno tutto sarebbe tornato al suo posto. Ma non fu così. Il solo rivederla in clinica mi fece rullare il cuore. Incrociammo nostri sguardi, mi sorrise e scivolò via. Sentivo il desiderio animale di possederla, me la immaginavo nuda sotto il peso del mio corpo, pensavo a quale sarebbe stato il suo sapore, il suo odore. Era successo tutto così all'improvviso dentro di me. Non sapevo cosa provasse lei ma sapevo che i suoi canali erano aperti e ricevevano perfettamente i miei messaggi. Mi sentii di nuovo attraente e desiderabile come tanto tempo prima. La volevo, con tutto me stesso. La volevo... Prima di pranzo sentii bussare alla porta della mia stanza. Era lei. “Volevo solo dirti che la signora della stanza 4 si è ripresa perfettamente dall'anestesia”. Pausa, silenzio. “So che ci tenevi molto e stavi in apprensione per il suo cuore e volevo che lo sapessi subito”. Chi le aveva detto che temevo che il cuore di quella donna non superasse bene i postumi dell'anestesia? Come mi aveva letto dentro? Non ne avevo parlato con nessuno, nemmeno con il mio socio. Non volevo che le mie paure, per fortuna vane, potessero influenzare gli altri professionisti che avevano operato. Non dissi una parola. Mi alzai, chiusi la porta a chiave. Mi voltai. La fissai. I suoi occhi sembravano bruciare di desiderio come i miei. La strinsi forte a me e la baciai, perdutamente, lungamente. Mentre le nostre lingue si intrecciavano era come se bevessi la sua anima dalla sua bocca e le passassi al contempo la mia. Facemmo l'amore sulla mia scrivania, senza preamboli, senza preliminari, senza spogliarci. Come se non potessimo fare altro. Spinsi forte dentro di lei. Era solo lì che volevo stare in quel momento. Dentro di lei, fino in fondo, senza mezze misure. E sono sicuro, anche lei voleva così..strinse forte i denti sul mio braccio per bloccare i gemiti che voleva urlare quando raggiunse l'orgasmo. Ricordo ancora la pienezza del mio essere quando sentii la sua vagina chiudersi in spasmi di piacere intorno a me...ed anch'io esplosi di piacere, inondandola, noncurante di tutto...ero ancora un uomo capace di dare piacere ad una giovane donna, ero ancora giovane, ero ancora forte...mi sentivo un leone, il re dell'universo che ancora una volta aveva sottomesso tutto e tutti al suo ruggito. Fu un attimo di eterno. La sera, quando tornai a casa, avevo di nuovo indossato la maschera del marito e del padre. Ero sempre lo stesso per voi. Feci una lunga doccia e mi sentii completamente appagato. Poi i miei occhi caddero sul mio braccio. C'era ancora il segno dei denti di Vittoria, prova indelebile di quello che era successo. E di nuovo sentii il desiderio crescere dentro di me. Ero lì con voi, sul divano alla televisione, ma in realtà ero altrove, ero ancora dentro di lei... Non riuscivo a dormire quella notte. Dovevo trovare appagamento a quel mio languore. Paola dormiva accanto a me, nel suo spazio, come sempre da molto tempo ormai. Lentamente spostai le lenzuola e iniziai ad accarezzarle le gambe. Si mosse, forse infastidita nel sonno dal mio tocco. Noncurante continuai; la strinsi forte a me, e iniziai a accarezzarle il pube nudo sotto la camicia di raso. Nel dormiveglia si voltò permettendomi di toccarla con più facilità. Allargò le gambe e iniziò a mugolare e gemere come da tanto non la sentivo più fare mentre la penetravo con le dita ed intanto le accarezzavo il clitoride...ma non era lei che stavo toccando in quel momento...in quel momento era come se stessi dando piacere a Vittoria. Un attimo dopo ero dentro di lei. Facemmo sesso senza parlare, in modo quasi selvaggio. Si, sesso, non l'amore. In quel momento io desideravo un'altra, non lei. Chiusi gli occhi per non guardarla e per far riemergere nella mia mente il viso ansimante di Vittoria mentre godeva sotto di me, i suoi occhi neri che mi risucchiavano. E fu inebriante...non provai sensi di colpa, frustrazione, ma godimento, enorme godimento, forse perverso, ma pur sempre godimento. Ero dentro a Paola, ma vedevo il viso di Vittoria, toccavo il corpo di Paola, ma era come sfiorare il sedere giovane e sodo di Vittoria, sentivo le mani di Paola su di me ed era come se Vittoria mi toccasse...fu stupefacente. Forze schizofrenico, ma pieno di energia. Mi addormentai in un sonno assoluto, senza sogni. Quando mi risvegliai il mondo mi appariva di nuovo scintillante, eccitante, desideroso di essere scoperto, pronto ad offrirmi i migliori frutti...oh si, ero davvero tornato ad essere un leone. E sentivo che tutto mi sarebbe stato possibile. Da quel giorno io e Vittoria diventammo amanti. O forse sarebbe meglio dire complici. Si complici in tutto; nel lavoro, nella passione per le dottrine orientali, nel culto del sesso come mezzo di elevazione delle nostre coscienze, nel ridere di noi stessi. La mia vita andò avanti così per 4 anni. Fra bugie a casa, ai colleghi, fra falsi convegni all'estero, false riunioni serali. Tutto per rubare qualche attimo alla vita “ufficiale” da passare con lei. Era diventata la mia droga, il mio mondo segreto, il mio piccolo nirvana. Lei non mi chiedeva mai di più. Le bastava questo. Non mi metteva di fronte a scelte difficili, alla richiesta di rinunciare a tutto quello che avevo costruito fino ad allora per lei. E io, in fondo, mi ero adattato bene. Non provavo neanche sensi di colpa verso vostra madre e verso di voi. Erano due mondi separati, completamente staccati. E io ero totalmente sincero in entrambi di essi. Dovevo solo riuscire a non farli intersecare mai. E invece un giorno si intersecarono. Nel peggiore dei modi in cui potesse accadere. Vittoria era incinta. All'inizio non ci credevo. Non mi sembrava possibile...padre di nuovo, a quasi 60 anni. Quando me lo disse eravamo nel suo appartamento, dopo aver fatto sesso, in modo sublime come al solito. Una enorme risata: solo quello riuscii a fare...non ci credevo, sembrava uno scherzo, di cattivissimo gusto ma pur sempre uno scherzo. Ma purtroppo non era così. Gli occhi sperduti e pieni di lacrime di Vittoria mi riportarono violentemente alla realtà. In un attimo sentii la testa girarmi vorticosamente. Dovevamo trovare una soluzione, subito, immediatamente. E la soluzione per me era chiara; quell'esserino che ora era null'altro che un puntino dentro di lei non sarebbe mai dovuto crescere, non poteva e non doveva nascere. Rassicurai Vittoria dicendole subito che avrei provveduto io a trovare il modo di finirla nel più breve tempo possibile. “No- rispose. – Questo bambino lo voglio”.Sentii crollarmi il mondo sotto i piedi; mi sentii in un attimo risucchiato come in un buco nero. Tutte le convinzioni in cui mi ero crogiolato negli ultimi anni, le mie manie di onnipotenza, la mia certezza di poter riuscire a vivere contemporaneamente in due mondi distinti e non intersecabili, crollarono in un attimo. Provai paura, anzi sarebbe meglio dire terrore. Penso che in fondo quello che provavo per lei poteva essere una sorta di particolare accezione dell'amore. Stavo diventando dipendente da lei. Non riuscivo a fare a meno della sua “dose” di presenza nella mia vita. Ma non volevo assolutamente perdere il mio mondo. Quel mondo che mi ero costruito mattone dopo mattone, con tanta fatica, quel mondo fatto dal professionista rispettabile e stimato che ero diventato, fatto dall'essere marito di vostra madre che, credetemi, comunque continuavo ad amare e a modo mio a rispettare , fatto dall'essere vostro padre, padre delle due persone meravigliose che stavate diventando e che in alcun modo avrei voluto mai deludere. La mia prima reazione fu, dunque, quella delle completa chiusura. Volevo che il mondo di Vittoria sparisse, tornasse nell'etereo così come era venuto. Dopo quel giorno non ci incontrammo più, o meglio non facemmo più l'amore, o sesso come preferite chiamarlo. Le dissi che, se proprio non voleva desistere dalla sua malsana idea di tenere quel bambino, le avrei dato dei soldi, le avrei comprato magari una casa dove crescerlo, lontano, all'estero. L'unica cosa che volevo era che quel bambino sparisse e con lui anche lei con tutte le sue pretese, che improvvisamente erano venute a galla. Ancora una volta la vita mi aveva cambiato le regole del gioco in corso d'opera, senza preavviso. Vittoria non era più la Vittoria che avevo così ardentemente desiderato avere per me in quei lunghissimi 4 anni. Pretendeva, voleva certezze, voleva dare un futuro a suo figlio. A modo suo mi ricattava, cercando di farmi venire sensi di colpa e di far nascere in me un sentimento paterno che assolutamente io non provavo. E io iniziai a vivere nel terrore che spalancasse la porta e mescolasse le mie due vite. Un giorno avemmo una lite furibonda.”Lo vuoi capire o no che quello che porti in grembo non è frutto di amore, non è desiderato – le urlai -. E' solo ...- mi interruppi un attimo, per poi riprendermi subito e ringhiarle addosso tutto il mio disprezzo -...è solo uno schizzo di sperma! Io non voglio e non vorrò mai saperne niente di quel coso che tieni dentro! Io ho già due figli, i miei splendidi figli, ho già una casa, che adoro e che non lascerei per niente al mondo. Ficcatelo bene in testa! Scoparti è stata un'esperienza sublime, non ne sarei mai stato sazio. Ma è tutto qui. Non voglio dividere altro con te e tanto meno con quello-conclusi indicandole con disgusto la pancia. Lei sbiancò; non le avevo mai visto negli occhi quell'espressione. Un misto di dolore, lancinante credo, di odio, di tutta la rabbia che portava dentro. Non una parola le uscì dalla bocca. Solo due lunghe lacrime le rigarono il volto. Mi voltò le spalle e si allontanò. Non so esattamente cosa provai nel vederla andare via. Dolore, si certo. Ma non per averla ferita a morte. Assolutamente no. Sarei falso a dire il contrario. Solo egoistico dolore di aver perduto d'un colpo quella bolla ovattata che avevo costruito con lei e che mi nutriva anima e corpo regalandomi una rinnovata gioventù. Ma non solo. Forse predominante fu un senso di liberazione. Stava sparendo e con lei sparivano le mie paure di essere scoperto, le mie ansie di perdere il mio mondo, il mio terrore di apparire a tutti quello che ero. Una persona scorretta, egoista, lussuriosa, priva di un cuore. Quella sera, dopo quell'incontro, tornai a casa da voi sentendomi più leggero. Volevo festeggiare, volevo brindare al fatto che finalmente mi ero svegliato da quel sogno perverso di cui mi ero continuamente nutrito in quegli ultimi anni. Vi portai a cena fuori, ve lo ricordate? Erano i primi di dicembre e la città aveva iniziato a colorarsi di luci e di addobbi. “Perché, non capisco? – mi chiese interrogativa vostra madre. “Semplicemente perché sento il cuore scoppiarmi di gioia quando torno a casa e vi trovo qui” le dissi guardandola con tutto l'amore del mondo. Lei continuò a non capire, ma credo che apprezzò quello slancio. Fu una serata bellissima. Tornando a casa ci fermammo alle macchinette automatiche per le foto tessera, vi ricordate? Ci stringemmo tutti e 4 dentro a quella casetta stretta a sorridere abbracciati davanti al flash..ho ancora una di quelle foto. Le foto della mia ritrovata pace. Un'altra giace sotto terra con vostra madre...vi ricordate? Gliela misi stretta tra le mani prima che chiudessero la bara all'obitorio. E tu Lorenzo mi chiedesti stupito il perché proprio di quella stupida foto...come puoi capire ora non era affatto stupida, era come un nuovo sigillo d'amore, per lei e per voi, l'esternazione concreta della fusione delle nostre anime. Mi sembrava che la mia vita fosse stata come una pallina da tennis che aveva sbattuto sulla rete rimanendo in bilico. Per un attimo poteva accadere tutto e il contrario di tutto. Ma finalmente la pallina era caduta di là, nell'altro campo. Io ne ero uscito vivo. Ed ancora intero. Col mio mondo. Ma quella serenità durò poco. Vittoria sparì davvero dalla mia vita, senza chiedere niente. Né soldi né attenzioni. Se ne era andata. Quando vidi la sua lettera di dimissioni in clinica, sentii un senso di beatitudine pervadermi. Ce l'avevo fatta ancora una volta! Ma ben presto iniziai ad avere degli incubi. La sognavo la notte, la vedevo come una strega feroce che tornava e mi divorava e con lei vedevo un mostro, quel bambino che di lì a poco sarebbe nato, un mostro famelico che mi prendeva fra i denti e mi spezzettava in mille pezzi. Iniziai a immaginarmelo quel bambino, a vederlo come sarebbe stato da grande, una mia fotocopia che avrebbe portato in giro per il mondo il mio viso, i miei occhi come una gogna che mi inchiodava al pubblico disgusto, come l'incarnazione vivente del mio peccato. Per strada mi sentivo continuamente osservato. Era come se la gente mi guardasse e guardandomi vedesse nel mio volto quello che avevo fatto vomitandomi addosso tutto il suo disgusto. Spesso mi capitava di vedere qualche donna che poteva somigliare a Vittoria e sobbalzavo di paura. Un giorno in particolare incrociai una bruna con il pancione – secondo i miei conti ormai Vittoria sarebbe stata vicino al parto – e iniziai a correre lontano, ritrovandomi con il fiato corto all'altro capo della strada, sotto lo sguardo stupito e divertito di alcuni passanti. Passarono i giorni, passarono i mesi, passarono degli anni. Lentamente tornai alla normalità. Nessuna catastrofe stava accadendo e io di nuovo, prima non del tutto, ma poi completamente, ero di nuovo io. Ero di nuovo il professore super impegnato che si dedicava anima e corpo alla sua clinica, il marito attento e premuroso che amava sua moglie in modo tenero e appassionato allo stesso tempo, il padre di due splendidi figli che stavano diventando grandi e che mi riempivano di soddisfazioni e di orgoglio. Ogni cosa era tornata al suo posto. Vittoria e il suo bambino erano spariti. A volte pensavo che forse erano stati solo un sogno, che mi ero immaginato tutto, che non erano in realtà mai esistiti. Penso che arrivai addirittura a dimenticarmene. Poi un giorno, durante la pausa pranzo, parlando a tavola, Fabio, il mio socio mi disse all'improvviso. “Ah, Valerio, sai, mi ero scordato di dirti una cosa!” “Cosa?” gli chiesi. “Non indovinerai mai chi ho incontrato domenica scorsa al mare all'isola d'Elba!” “Chi?” incalzai incuriosito. “Ti ricordi quella specializzanda che quattro anni fa è sparita all'improvviso? Quella mora, carina e silenziosa, dalle grandi promesse professionali, a cui ti eri affezionato tanto e che ti portavi sempre dietro ad imparare?...dai, quella che si dimise senza preavviso e senza un motivo, come si chiamava, non mi ricordo? Hai capito quale?” Sentii come un cazzotto nello stomaco...altro che se avevo capito: Vittoria! Mille pensieri mi saltarono addosso: con chi era? Aveva con sé suo figlio? Avevano parlato? Gli aveva raccontato di me?...Un turbine di domande in testa. Cercai di mascherare il disagio che provavo e fingendo indifferenza per la conversazione risposi “Ah, si, forse ho capito. Come si chiamava...Vittoria mi pare..” “Si Vittoria!- rispose – Non mi veniva in mente. Mi sono quasi vergognato quando ci siamo salutati, non sapevo come chiamarla!”. Dunque si erano parlati! Dovevo sapere a tutti i costi cosa si erano detti, ma non potevo sembrare interessato più di tanto. “Davvero!- esclamai sorridendo- e come se la passa? Che fa nella vita?” “Non lo so – risposte Fabio continuando a masticare una grossa foglia di insalata – abbiamo scambiato solo poche parole di circostanza. Non me la sono sentita di chiederle niente. Ma mi sa che la sua vita ha avuto una brusca svolta”. “In che senso?” incalzai. “Bè, non saprei di preciso, ma mi sa che qualche bastardo l'ha messa incinta e l'ha abbandonata...era tutta sola all'hotel dove ci eravamo fermati per una notte io e mia moglie, con un bambino”. Un altro colpo al cuore. Mi risultò davvero difficile simulare indifferenza mentre dentro ero in completo subbuglio. Quel bastardo Fabio ce lo aveva proprio davanti agli occhi. Ero io che l'avevo usata per sentirmi vivo, per sentirmi uomo, per sentirmi giovane e poi l'avevo scaricata, come una busta di spazzatura piena di immondizia puzzolente, dentro al primo cassonetto disponibile. “Tu l'avessi visto! Un bambino stupendo! Avrà avuto si e no 4 anni...ho fatto 2 più 2 e ho dedotto che forse era stata proprio quella la causa della sua sparizione. Secondo i miei conti se ne era andata più o meno poco prima della sua nascita!Comunque, ritornando al bambino, era davvero bello: capelli scuri e ricci come la mamma, occhi celesti che ammaliavano. Anche mia moglie è rimasta stupita dalla sua bellezza, sembrava un angelo!” Mio figlio! Un angelo! Per la prima volta sentii un groppo al cuore, una sensazione che somigliava alla tenerezza che avevo provato per voi, quando eravate piccoli. Per la prima volta sentii crescere dentro di me il desiderio di vederlo, di stringerlo al petto, di proteggerlo...mio figlio...mio figlio....con i miei stessi occhi color ghiaccio...”Valerio, ma mi ascolti?” La domanda di Fabio mi riportò bruscamente alla realtà. “Si, scusami, mi ero distratto un attimo pensando a quel nuovo macchinario di cui ci ha parlato stamani il rappresentante” fu la prima sciocchezza che mi venne in mente di dire per giustificare il mio silenzio. “Sei sempre lo stesso, Valerio! – mi schernì sorridendo Fabio – neppure a pranzo riesci a staccare per qualche minuto la spina!...Forza, dai, finisci la pasta che ti si fredda!...Forse dovresti prenderti una vacanza, svagarti un po'...non lo hai mai fatto da quando ti conosco”. “Ah quanto poco mi conosci” mi venne da pensare. Altro che svago mi ero preso, altro che vacanza avevo fatto con Vittoria! In un attimo mi passarono nella mente i suoi sorrisi, i suoi gemiti, i momenti di risate spensierate che ci eravamo fatti insieme. In un secondo fu come rivivere quelle forti sensazioni. “Beh, forse hai ragione- dissi invece- Forse avrei bisogno di un week end rigenerante anch'io !”. E sorrisi. “Perché tu e Paola non andate anche voi in quel magnifico hotel all'isola d'Elba! Immerso nella pineta...potreste prendervi una dependance come abbiamo fatto noi, e vivervi due giorni insieme fuori dal mondo. Se vuoi, dopo ti lascio i recapiti!”. “Eh, magari” risposi io senza pensare. “Tornando a Vittoria – continuò – mi ha detto solo che si sarebbe trattenuta fino a domenica prossima e poi sarebbe partita definitivamente per l'estero, non ho capito a fare bene cosa, né per andare dove.- Fece una pausa per bere e concluse – Dai, andiamo ora...il dovere ci attende!”. La sera Fabio lasciò sulla mia scrivania il nome e il recapito di quell'hotel. L'hotel dove per qualche giorno ancora sarebbero stati Vittoria e suo figlio...nostro figlio. Quella notte non riuscii a dormire. Rimuginai e rimuginai. Pensavo a Vittoria, a quell'angelo di bambino che anch'io avevo contribuito a mettere al mondo...a mio figlio. Dovevo vederlo, dovevo conoscerlo...così mi costruii un piano, una bugia da poter raccontare a tutti per poter partire 2 giorni ed andare là. Da loro. Il mattino dopo a colazione, dissi: “Paola ti ricordi di mio cugino, Tom, quello che vive a Philadelphia?” “Si, perché?” mi rispose distrattamente. “E' in Italia, a Firenze. Mi ha chiamato ieri e mi ha chiesto se avevo voglia di andare a passare due giorni con lui. Ci ho pensato un po' e poi mi sono detto che, beh, magari potrei prendermi una piccola pausa e andare a trovarlo...ormai abbiamo entrambi una certa età e chissà se avremo più occasione di rivederci...che ne dici?”. Sapevo che Paola non adorava i miei parenti, che non sarebbe voluta venire con me, ma che non mi avrebbe mai impedito di andare. “Si, certo, uno svago non ti farebbe che bene...ultimamente non hai un attimo di tregua...però, Valerio, io veramente ho un sacco di cose da fare qui e non me la sento di lasciare anche solo per due giorni i ragazzi da soli, soprattutto ora che sono tanto presi dallo studio...non ti offendi, vero, se non ti accompagno?” Ma certo che non mi offendevo! Era quello che volevo sentirmi dire! “Ma no, stai tranquilla! – le risposi – Non pretendevo che tu mi accompagnassi!” e la baciai dolcemente. Arrivato in clinica, mi chiusi nella mia stanza e, preso il telefono, composi il numero che mi aveva lasciato Fabio. “Pronto, hotel Cristallo?”. Tre giorni dopo ero su un traghetto per l'isola d'Elba. Ero emozionato, impaurito, eccitato, tormentato. Non sapevo come avrei reagito vedendo quel bambino e Vittoria. E non sapevo neppure come avrebbe reagito lei. Forse, mi dicevo, la cosa migliore sarebbe stata quella di rannicchiarmi in un angolino e di guardarli da lontano, senza essere visto e senza irrompere nel loro mondo, Si, forse quella era la scelta più saggia. Io avrei sedato il mio desiderio di conoscere mio figlio e sarei riuscito a farlo senza causare a Vittoria un ulteriore trauma. In fondo le avevo già sconvolto la vita. E anche se non avevo mai provato fino ad allora un briciolo di rimorso, in quel momento mi sentii davvero un verme, uno schifoso verme vigliacco ed egoista. Arrivai all'hotel e mi sentivo quasi come un ladro colto in flagrante mentre scassinava una cassaforte. Andai a rintanarmi nella mia camera, chiedendomi in continuo quando avrei potuto scorgere Vittoria e il bambino. Uscii solo all'ora di cena, per andare nel salone a mangiare. Mentre stavo facendo la fila con il piatto in mano per il buffet di antipasti, mi sentii tirare per i pantaloni, dalle spalle. Mi voltai e vidi....si lo vidi...lui, il mio bambino. Era veramente un angelo, con quel suo visino paffutello, scurito dal sole da cui spuntavano quegli occhioni chiari e profondi come due fari. I suoi capelli neri e ricci rendevano quegli occhi ancora più lucenti. Indossava un paio di bermuda blu e una polo bianca. Rimasi pietrificato e uno slancio di amore, di tutto quell'amore che gli avevo negato fin da quando era solo un puntino nel grembo di sua madre, sembrò schizzarmi fuori dal petto. “Scusa, signore – mi disse – mi passi quelle patatine lì, non ci arrivo”. Per un attimo, un lunghissimo interminabile attimo, rimasi a fissarlo, mentre lui mi guardava interrogativo. Poi, gli sorrisi e senza dire una parola mi voltai verso il tavolo per prendergli le patatine che mi aveva chiesto. “Valerio!” sentii dire alle mie spalle da una voce femminile “Quante volte devo dirti di non sgattaiolare fra la gente e disturbare le persone con le tue richieste!” Riconobbi quella voce: Vittoria! E aveva chiamato suo figlio Valerio, come me... Mi voltai di scatto e la vidi. Bella come sempre, forse ancora di più di come me la ricordavo, forse resa ancora più affascinante da qualche anno in più e da quella responsabilità materna. Un corpo ancora perfetto, forse ancora più attraente di quando era stato mio, diventato più formoso e più maturo con la maternità. Aveva i lunghi capelli sciolti sulle spalle abbronzate e nude, sotto ad un vestito nero che le cadeva leggero sui fianchi. Incrociammo i nostri sguardi. Non una parola. Non riuscii a dire niente e lo stesso fu per lei. Scorsi solo un fremito nel suo volto. Lo stesso fremito che avevo avuto io. Era lì, davanti a me, con nostro figlio...il mondo si era fermato ....”Le patatine!” interruppe il piccolo Valerio...la sua voce mi riportò alla realtà. “Si, certo, piccolo, eccole!”. Vittoria prese Valerio per mano e lo trascinò via, al tavolo, dicendo solo “Scusi”. Passai il resto della cena a fissarli. Sedevano da soli, in disparte. Erano bellissimi. Vittoria era dolce e tenera con lui e Valerio la ricompensava spesso con sorrisi. Chiacchieravano mentre lei lo aiutava a mangiare. In quel momento avrei voluto essere lì con loro. Avrei voluto godere anch'io dei sorrisi di mio figlio...quel figlio che in realtà mi assomigliava davvero tanto e che portava il mio stesso nome...sentii la voglia irrefrenabile di piangere e trattenni a stento le lacrime. Vittoria non si voltò neppure una volta a cercarmi fra la gente. Fu una lunga, lenta sofferenza. La giusta pena per le mie colpe... Finita la cena li vidi uscire e spostarsi al piano bar. “Mamma, stasera c'è il karaoke” diceva Valerio “Mi hai promesso che si faceva tardi!” lo sentii dire. Così anch'io andai al karaoke. Fumai non so quante sigarette mentre li spiavo. Alla fine Valerio si voltò, mi vide e mi venne incontro. Vittoria non riuscì a fermarlo. “Grazie per le patatine” mi disse. “La mamma è sempre così nervosa quando scappo!” Non dissi una parola, lo fissai, gli sorrisi e gli detti una carezza. Vittoria arrivò subito, “Valerio” disse “Lascia in pace questo signore. Non capisci che per lui sei un fastidio!”. Mentre pronunciò queste parole mi fissò con disprezzo. “No assolutamente, signora!- dissi senza pensare – suo figlio è un bambino splendido- continuai fingendo di non conoscerla così come aveva fatto lei. “Visto mamma?- ribattè il piccolo. – Senti signore, come ti chiami?” “Valerio, come te” dissi quasi sotto voce. “Che buffo! Abbiamo lo stesso nome! Perché non ci accompagni alla nostra camera nella pineta, così ti faccio vedere come è bella la luna di notte fra gli alberi!” “Valerio!” disse quasi urlando stizzita Vittoria. A quel richiamo entrambi alzammo il nostro sguardo su di lei. Era diventata rossa in volto. Non voleva, non mi voleva un attimo di più nel suo mondo. E come potevo darle torto! Ma io sentivo il desiderio irrefrenabile di stare qualche momento vicino a mio figlio. “Volentieri!- dissi – se la mamma vuole....” “Dai mamma, ti prego, ti prego, ti prego- iniziò a piagnucolare il piccolo Valerio. Vittoria si voltò di scatto, senza dire una parola e in un gesto d'impeto si incamminò verso la pineta. “Visto? – disse soddisfatto mio figlio – mamma è sempre così: brontola, ma poi mi fa fare quello che voglio! Vieni!” e mi prese per mano. Come era vero! Non era forse successo lo stesso anche con me, un altro Valerio, qualche anno fa? Vittoria aveva accondisceso a tutte le mie richieste, anche le più strane e a volte, a dir poco, bizzarre per usare un eufemismo; magari all'inizio era stata un po' reticente, ma non aveva mai saputo dire di no al mio sguardo convincente. Non so cosa provai di preciso in quel momento. Ero stordito, mi sentivo come in un sogno. Forse quel piccolino sentiva dentro di sé che c'era qualcosa che ci univa...mi cullai con questo pensiero e mi incamminai con lui nel buio rischiarato solo da qualche lampione del sentiero che conduceva alle dependance nella pineta, dietro a Vittoria. Mi sembrava di aver ricomposto i pezzi di uno specchio che qualcuno aveva spaccato con violenza. Che io avevo spaccato senza pietà qualche anno prima. Arrivammo alla loro stanza. Era simile alla mia. Una piccola costruzione separata dalle altre e immersa nel verde della pineta. In lontananza si udiva lo sciabordio del mare; sopra di noi uno splendido cielo stellato. In quel momento eravamo solo io e lui, il mio bambino, quel bambino che avevo rifiutato con tanto sdegno, quel bambino che fino a quel momento non avevo mai considerato una persona e che ora invece, mentre mi teneva stretto con la sua manina, mi sembrava essere la cosa più importante del mondo. Ancora una volta il mio mondo, vostra madre e voi eravate spariti. Ero di nuovo in una bolla tutta mia, carica di un'energia incontrollata. E fu lì, in quella notte d'estate, lontano da case, gente, rumori, luci abbaglianti che successe quello che per me fu un miracolo. Si, un vero miracolo, non credo di avere altre parole per descriverlo. Vittoria si tenne in disparte. Non so se per dolore, per rabbia, per paura o forse per concedere a suo figlio di vivere, anche solo per qualche momento, la presenza di suo padre. Non l'ho mai capito; francamente forse non mi è mai neppure interessato indagare troppo a fondo su questo o forse non ne ebbi neppure il tempo. Valerio mi fece sedere su una sdraio e venne a rannicchiarsi sul mio petto. Eravamo veramente solo io e lui. E il silenzio intorno a noi. E lassù, in alto sopra le nostre teste, tanti piccoli occhi brillanti che ci fissavano e soprattutto lei, la luna, il grande faro. E' stato nella calma sconvolgente di quel momento che ho intuito il senso del mio essere, concatenato con quello del resto del Tutto. “Guarda!- mi disse all'improvviso - Quelle stelle sembrano fare il girotondo!”. Era vero, c'erano una decina di quei piccoli occhi brillanti che parevano tenersi per mano e cantare in coro “giro girotondo, casca il mondo, casca la terra e tutti giù per terra!” E poi, anche se non era così che importanza aveva. A mio figlio sembrava che facessero il girotondo. Quest'idea lo faceva sorridere e tanto bastava. Ci abbracciammo. Carezzai i suoi capelli morbidi, fissai il suo visino assorto nel cielo e provai una pienezza senza uguali. Poi una sua domanda mi colse di sorpresa: “Che fa la luna lassù secondo te? Perché non scende mai a bagnarsi in mare o a farsi toccare? – mi chiese. – Mi piacerebbe tanto sentire come è, magari poterla staccare un pezzettino per portarmela in camera ogni notte. Perché non viene, Valerio, tu lo sai?”. Una bella domanda! Quante volte anche io mi ero chiesto il senso del suo salire in cielo, crescere, esplodere nella pienezza e poi tornare a essere piccola e ricominciare tutto d'accapo. “Non può, piccolino– risposi. - Ci sono tanti fili invisibili che la tengono lassù, alta; perché la luna è grande e pesante e da sola non ce la farebbe. Se decidesse di scendere, spezzerebbe tutte le corde e non riuscirebbe più a salire. E dopo come faremmo la notte se alzando gli occhi al cielo trovassimo solo il buio?”. Fu la prima risposta che mi venne in mente. “E allora perché non ci andiamo noi lassù da lei? – insistette – Potremmo costruire una scala lunga lunga e arrivarci”. Sorrisi e gli baciai la fronte. “Se te sapessi davvero come è dopo come faresti a fantasticare e a cercare di immaginartela? – dissi. – La luna è così bella perché puoi farla diventare quello che vuoi. Stasera cosa pensi che sia?”. “Una torta di panna, morbida e soffice”. Si addormentò lentamente, sul mio petto, parlando di come doveva essere questa torta, di come avrebbe potuto abbellirla con fragole e ciliegie , di come avrebbe potuto affondarci le manine. Mi persi nel suo viso rilassato e illuminato dalla luce del firmamento e provai un amore indescrivibile. Alzai di nuovo lo sguardo alla luna. Quella notte era davvero bellissima, nella sua massima pienezza e vista da lì, senza che nessun rumore o nessun'altra luce la offuscassero, esercitava la sua capacità ammaliatrice in modo incondizionato. Rimasi a fissarla per non so quanto, come ipnotizzato. Come tutte le cose sulla terra, come le maree e le piantagioni, come ilciclo delle stagioni e delle donne, anche il mio spirito era influenzato da lei. Iniziai a vedere tutto il resto in modo diverso. Non staccando gli occhi da lei mi sembrava che il buio intorno, in alto nel cielo e in basso sulla terra, fosse relativo. Lentamente mi addormentai anche io e iniziai a sognare..... “Ehi! Su, apri gli occhi, guardami! Devo spiegarti tante cose e non c'è molto tempo!”.Ma chi mi parlava? Chi mi scuoteva?....No, non potevo crederci.... Era lei, La luna! “L'hai detto tu stesso a tuo figlio che io posso diventare quello che ognuno di voi vuole, e ora ti stupisci? Ti sembra strano che sono qui a parlarti? Ma se sei proprio te che mi hai chiamata! – esclamò quasi stizzita. – Prima vuoi che venga a darti delle risposte e poi non riesci ad accendere il collegamento per ascoltarle!” “Lo so cosa vuoi sapere da me – continuò. – Lo so che ti chiedi il senso dei tuoi giorni, il perché del tuo dolore, il motore che ti spinge ad alzarti la mattina, a progettare, a fare, a gioire e ad arrabbiarti. Lo so che vorresti dare risposte serie alle domande di tuo figlio. Lo so. Ma io non posso darti il perché di tutto. Ti do tre domande, come i tre desideri della lampada di Aladino e poi tornerò nel mio silenzio siderale. Su, forza! Non posso dedicare tutta la notte a te!”. Colto alla sprovvista per un attimo esitai. Cosa avrei potuto chiederle? Come avrei potuto formulare i tanti pensieri che mi balenavano nella testa? Provai a concentrarmi e iniziai a parlare... “Cosa c'è di là dal buio di questo cielo?” Fu la prima domanda che mi uscì di bocca. “Semplice: la Luce” – iniziò. “ Un tempo Luce e Buio erano completamente separati. La Luce stava al di qua e voi, sulla terra, stavate al di là. Tutto era semplice. La Luce viveva del suo calore e della sua forza e voi vivevate di quello che l'oscurità poteva offrirvi. Non c'era desiderio, non c'era bramosia. Ogni cosa era al suo posto e non desiderava altro. Poi la Luce un bel giorno si annoiò di cullarsi nella sua perfezione e decise di mettersi in contatto con l'oscurità. Le sue emanazioni erano troppo forti e non potevano essere contenute in sé stessa. Doveva farle andare oltre, farle uscire dai confini del suo essere. Fu allora che inventò il Sole. La massima espressione della sua potenza. E il Sole divenne vitale per voi. Vi permise di crescere e di svilupparvi, vi fece vedere tante cose che prima non vi apparivano. Ma la sua forza era troppo prorompente. Voi non potevate fissarlo negli occhi o sareste rimasti accecati e lui non riusciva a vedervi, tanto era offuscato dalla sua stessa luce. Ancora, dunque, nulla era cambiato. Ancora, nonostante il Sole, Luce e Buio in realtà non si parlavano. Ci voleva qualcos'altro. Qualcosa di meno forte, qualcosa che potesse farli comunicare. La Luce ormai aveva deciso. Provava il desiderio di redimere il Buio, di renderlo meno oscuro e misterioso, abituata com'era al suo candore e alla sua chiarezza. Dunque decise di cambiare. Oscurò il Sole e al suo posto fece tanti piccoli buchi nel tessuto sottile che la separava dal buio. Così nacquero le Stelle. Innumerevoli piccoli occhi che vi osservavano nell'oscurità. Ma a questo punto anche il Buio iniziò a intuire la Luce. E con l'intuizione nacque anche da parte sua l'aspirazione a conoscerla, la bramosia di raggiungerla. In un primo momento la Luce ne fu lusingata. Ed allora creò me, la Luna. Un faro molto più potente delle Stelle ma freddo e glaciale non bruciante e accecante come il Sole. E non fece solo questo. Mi fornì anche di una carica magnetica tale che riuscii ad attirare e ad influenzare tanti aspetti del Buio. Fu così che il Buio ebbe la sua evoluzione. Non fu più Buio e basta, ma divenne Buio pensante e iniziò a reagire alle sfide di crescita lanciate dalla Luce. Ma il Buio era comunque pur sempre Buio e per quanto potesse essere cresciuto continuava a mantenere i suoi aspetti oscuri. Tanto che riuscì a sua volta ad influenzare anche me. Io che ero stata creata per assuefarlo alla Luce ad un certo punto mi ritrovai il mio lato oscuro. Lo hanno chiamato Lilith.Un luogo non-luogo, una parte di me misteriosa e tenebrosa come il Buio, sconosciuta spesso anche a me stessa. Ma anche questa soluzione non andava bene. La Luce aveva schiarito molto il Buio ma al tempo stesso così rischiava di mescolarcisi troppo e di perdere la sua chiarezza. Però, ormai, non poteva più farlo ricadere nella sua silenziosa oscurità. Ormai in qualche modo si erano fusi. Allora scelse di alternare il giorno, il Sole accecante, con la notte, me, la Luna ammaliante e le Stelle osservatrici. Di giorno voi uomini operate, lavorate, siete presi da mille incombenze pratiche e non pensate, non vi soffermate a pensare alla Luce, anche se è proprio la potenza della luce dirompente del Sole che vi permette di fare tutto. Di notte, invece, sognate, meditate e comunicate con me, l'espressione più delicata e affascinante della Luce. Ho avuto così tanti contatti con voi che anche io ormai un po' vi somiglio; anch'io, come ti ho detto, ho il mio lato nero. Tutto avviene con una cadenza perfetta. La Luce non ama imprevisti, calcola tutto. Ogni diversa fase si alterna in momenti precisi. Tutto questo per far sì che il sottile equilibrio che si è creato non possa vacillare”. La Luna smise di parlare. Rimase per un po' in attesa e poi riprese “Vai, sono pronta per la seconda domanda”. Questa volta fu più semplice. Mi uscì di bocca in modo quasi naturale, senza troppo pensare. “Tante volte nella mia vita mi sono sentito legato con un filo invisibile a qualcuno o a qualcosa senza un preciso perché – iniziai. Ormai mi sentivo a mio agio a parlare con lei e dunque riuscivo aformulare pensieri più complessi. – Una sorta di flash che per qualche istante mi ha fatto come captare onde radio sintonizzate su una frequenza diversa. Poi stop. Momenti che sembravo aver già vissuto, legami eterei con persone sconosciute ma che in quel momento, in quel preciso momento in cui le incontravo sembravano essere per me più vicine dei vecchi amici d'infanzia. Ma non solo questo. Momenti in cui mi sono sentito pervaso da una forza incredibile e inondato da un'energia incontenibile. Come ora che ho stretto per la prima volta la mano a questo mio figlio. In questo dolore lancinante per non averlo accettato e per averlo orami perso, sto provando un piacere indescrivibile, una potenza smisurata. .... forse in momenti come questi il mio contatto con la Luce è stato più diretto...chissà”. “Stringi, qual è la domanda? – mi interruppe bruscamente la Luna. “Come posso cercare di ricreare questi momenti, queste sensazioni? C'è qualcosa che posso fare per provocarmele, se così si può dire?” “Tu vuoi troppo! Vorresti emozionarti calcolando il subbuglio interiore e al tempo stesso vorresti ragionare provando lo sconvolgimento dell'instabilità...ma non è possibile. Questi momenti, i momenti che mi hai descritto, succedono. Succedono e basta. E soprattutto succedono quando meno hai il cervello collegato, quando meno pensi. Solo quando il ragionamento e gli istinti di sopravvivenza allentano la presa gli altri canali possono rinforzare il loro segnale e captare qualcosa di diverso. Non posso dirti più. Non c'è una formula prestabilita, un modo per ritrovarli. Ognuno ha i suoi mezzi, che sono solo suoi e che nessun altro può conoscere. Sono sicura, però, che se ti guardi dentro con sincerità e senza costruzioni precostituite, saprai trovarti la risposta da solo”. Ci fu un lungo momento di pausa. Mi misi a riflettere. Si, forse la Luna aveva ragione, forse nessuno avrebbe né saputo né potuto indicarmi la via, se non io stesso. “Forza! – mi esortò. – Hai ancora una domanda, l'ultima”. Le parole mi uscirono di bocca con impeto, subito, senza neppure far passare un secondo. “Perché? Qual è il senso di tutto questo nostro muoverci verso qualcosa? Come mai non ci acquietiamo mai e cerchiamo sempre di andare oltre? Come posso fare ad avere una visione d'insieme?” “Ora esageri, amico mio! Mi chiedi cose che non mi è dato di sapere. Non credere che per il semplice fatto che io sia un tramite per la Luce, che io viva con il riflesso della Luce, riesca a capire il Perché. Questo solo la Luce lo sa ...forse. Siamo tutti ingranaggi di un meccanismo che sembra davvero perfetto. Ogni singola parte svolge un ruolo fondamentale per il funzionamento del tutto anche se in realtà fa un movimento piccolissimo rispetto all'insieme. Come posso dirti: immagina di essere dentro agli ingranaggi di un grandissimo, immenso orologio. Ogni molla, ogni pezzettino serve a farlo muovere e a fargli contare il tempo. Ecco, forse questa è l'immagine che più rende l'idea: un grande orologio. Ma noi non potremo mai vederlo da fuori perché ne siamo parte integrante. E non possiamo neppure uscirne per un po', altrimenti il sistema si inceppa”. Fece un momento di silenzio. Poi riprese, quasi a darsi conferma ella stessa di quello che stava dicendo. “Si, proprio un grande orologio, anzi IL grande orologio, perché l'unico. Che gira, gira. Fa salire le lancette su in alto e poi le fa ridiscendere. Fa salire me in cielo, mi fa crescere e poi, una volta raggiunta la pienezza, mi fa lentamente scomparire di nuovo. Così come ha fatto nascere te, ti ha fatto crescere, creare cose e situazioni per poi farti lentamente perdere le tue facoltà fino a farti tornare un niente. Un ciclo continuo, ininterrotto come il ticchettio di un orologio. Qual è il senso di tutto questo? Non lo so. So solo che c'è e risiede in quella forza misteriosa che ci spinge a continuare, all'infinito”. Un raggio di sole mi ferì gli occhi. Li aprii. Stava albeggiando. Avevo dormito tutta la notte sulla sdraio con mio figlio in braccio senza neppure essermene accorto. Guardai su, in alto. Scrutai il cielo. La Luna ormai non c'era più. Ripensai alle sue parole. Un sogno? Un contatto vero? Mah! Richiusi gli occhi e nei primi rumori del mattino che risvegliava il mondo mi parve di sentire un rumore di fondo... “tic-tac, tic-tac, tic-tac...”. Il grande orologio! Anche mio figlio aprì gli occhi, forse disturbato dai miei movimenti. Mi guardò e mi disse “Ciao Valerio, sai, stanotte ho sognato la luna!”. Mi sentii percorrere da un brivido. “E che faceva? Cosa era diventata per te stanotte?” gli chiesi. “Niente, era solo la luna. Mi ha fissato a lungo e poi mi ha detto – Ascolta, piccino, ascolta. Se apri bene le orecchie lo sentirai”. “Cosa?” insistetti io. “Non me lo ricordo più. Un rumore, un rumore che mi ha detto che c'è sempre....cosa sarà?”. Rimasi pietrificato. Anche mio figlio aveva parlato con la Luna allora! Anche lui era sui nostri canali! Dunque, non era un sogno...o se lo era, era davvero particolare... “Il grande orologio – risposi. – Chiudi gli occhi e stringiti a me – continuai. – Forse insieme potremmo sentirlo più forte il suo ticchettio...”. ....tic-tac, tic-tac, tic-tac.... Non so se fu suggestione, non so se fu solo la manifestazione del mio desidero di essere un tutt'uno con mio figlio in quel momento, ma fu una cosa concreta, forte, tangibile. E in quel preciso istante presi una decisione: fosse costato quel che fosse costato, avrei voluto avere mio figlio vicino a me, nel mio mondo, per sempre. Si, era così. Quando Vittoria ricomparve nella scena, ero deciso a dirglielo e, se necessario ad obbligarla a far tornare da me mio figlio. “Vittoria, io...”iniziai. “Sta zitto!- mi interruppe bruscamente – Non voglio sentire una volta di più la tua voce!”. Non trovai la forza di ribellarmi. Per la prima volta da quando l'avevo conosciuta era lei ad avere il sopravvento su di me. “Vieni, amore- disse dolcemente a Valerio che ancora si stiracchiava sulle mie gambe. Andiamo a preparaci”. Valerio scese, l'abbracciò e le dette un tenero bacio su una guancia. Poi entrò per andare in bagno. Vittoria rimase sulla porta come a difenderlo e ad assicurarsi che non lo avrei ancora seguito. Poi si voltò e con occhi di fuoco mi disse “Sparisci dalla nostra vita e non permetterti mai più di rientrarci”. “Ma io...Vittoria...io”. “Ricordi cosa mi dicesti quel giorno? Quel coso che porti in pancia non è altro che uno schizzo di sperma. E ora cosa vuoi? Cosa pretendi? Di arrivare e venire a fare il padre premuroso nei minuti rubati alla tua perfetta vita di professore integerrimo con moglie e figli legittimi? Mi fai venire la nausea. Mi domando solo come ti abbia permesso di....” “Di cosa?” mi venne di dirle in tono dolce cercando di accarezzarle una mano. “Non ti avvicinare! Non mi toccare!- mi ringhiò addosso – mi fai schifo te e tutto il putrido che porti dentro. Allora mi avevi come drogata...non lo so come sia potuto succedere. Accondiscendevo a tutto pur di vedere nei tuoi occhi piacere e soddisfazione. Come quella schifossissima volta che mi hai fatto scopare da quel tizio che avevamo conosciuto in hotel durante un tuo “finto convegno”?...Ti ricordi? Porco bastardo! Ti ricordi? Dicevi che era un modo per raggiungere l'estasi, che il fatto di guardarmi mentre qualcun altro mi possedeva ti dava adrenalina, ti portava a volermi ancora di più....ti ricordi? Che schifo mi fai”. Aveva ragione. L'avevo spinta a vivere le situazioni più depravate per me...lentamente, subdolamente. L'avevo soggiogata a me, la tenevo in pugno e lei faceva di tutto per sentirmi dire “Oggi sono stato fiero di te, hai superato un altro limite...per me...con me”. Quanto male le avevo fatto senza rendermene conto! Ma ora ero cambiato, volevo dirglielo. Ora ero pronto a prendermi le mie responsabilità, ora volevo solo poter fare qualcosa per lenire quel dolore....o forse sarebbe più sincero dire che volevo solo mio figlio. “Perché lo hai chiamato con il mio nome?”le chiesi senza pensare. “Perché? Perché volevo avere davanti agli occhi tutti i giorni della mia vita il tuo orribile ricordo per continuare ad odiarti fino al mio ultimo respiro. Per non scordare. Per non placare tutto il mio desiderio di vederti soffrire un giorno, di bearmi a contemplarti mentre ti struggevi di dolore”. Mi fece paura. “Perché credi che ti abbia fatto stare con tuo figlio stanotte?- si fermò un attimo e mi guardò con ghigno perverso. – Pensi forse che lo abbia fatto perché sono la solita ingenua, sciocca Vittoria che pende dalle tue labbra? O perché mi sono commossa al pensiero che dopo che Fabio ti ha parlato di me tu ti sei fiondato qui? No, caro, no...ho studiato per anni la mia vendetta e ora la sto solo mettendo in atto...”. “Non capisco” sussurrai. “Tu non devi capire, stronzo! Tu devi solo soffrire” mi aggredì. Pensi che il mio incontro con Fabio sia stato frutto del caso? Eh, pensi questo? Allora caro vecchio mio stai perdendo i colpi! Sapevo che Fabio sarebbe venuto qui con la sua mogliettina la scorsa settimana. Non chiedermi come facevo a saperlo perché non sono affari che ti riguardano, ma lo sapevo. Sapevo che, da buon amico e socio quale è, ti avrebbe detto che aveva trovato qui la povera specializzanda, ragazza madre con un angelo di bambino. E sapevo che la curiosità non ti avrebbe permesso di lasciarti sfuggire questa occasione. Il tuo ego di maschio potente doveva venire a vedere cosa aveva creato. Dovevi venire a gongolarti, a controllare quanto buono era stato il tuo seme e a verificare che avevi ancora una volta fatto un'opera d'arte” Mi fermai a riflettere. Ero senza parole. Chi era quella Vittoria? Una sconosciuta, mai vista prima...ma forse una sconosciuta che aveva ragione. Fino ad allora non avevo provato un minimo di sentimento paterno verso quel bambino. Ma quando Fabio me ne aveva parlato avevo sentito come una punta di orgoglio crescermi dentro e avevo provato il desiderio di conoscerlo, e ora di portarmelo via, nel mio mondo. “Ora Valerio ti ha conosciuto- proseguì – ora ha un ricordo bello con te e te con lui. Glielo conserverò per quando sarà abbastanza grande per capire. Per quando potrò raccontargli che eri suo padre, ma che lo avevi considerato un coso frutto di uno schizzo di sperma. Che eri un mostro che aveva sfruttato sua madre fino a portarla alla depravazione e che poi l'aveva abbandonata insieme a lui, ancora tenero germoglio nel suo ventre. Gli racconterò tutto, ogni piccolo dettaglio dell'essere che sei, indegno di vivere” “Non puoi farlo Vittoria, gli rovinerai la vita! Io voglio tornare ad essere suo padre” Scoppiò in una violenta risata. “Ah, questa è bella, suo padre!”Si scurì repentinamente in volto. “Non provare mai più ad avvicinarti a lui o andrò da tua moglie prima e dai giornalisti poi a raccontare nei minimi dettagli la nostra storia. Oggi noi partiamo. Non provare neanche per sogno a cercarci. Spero solo che tu soffra ogni giorno ripensando al viso di Valerio, immaginandotelo che cresce senza che tu possa mai più vederlo e soprattutto...pensando che un giorno saprà tutto di te e ti odierà sempre...questa è la mia vendetta...che tu possa struggerti ogni giorno, che questo tarlo ti logori l'anima se ne hai una fino alla tomba”. La detestavo. In quel momento mi passò per la testa il desiderio di vederla morta. Mi avvicinai con fare minaccioso. Avrei voluto stringerle il collo fino a farla smettere di respirare. Non poteva fami questo. “Non provarci nemmeno!- mi intimò risoluta.Ho depositato nella cassaforte una lettera dove dico tutto di te e dove scrivo che se mi succede qualcosa il colpevole sei tu...ti manca solo questo, diventare un assassino omicida” disse con un mezzo sorriso. Mi fermai di scatto. Aveva davvero calcolato tutto, anche questo. Mi conosceva bene e aveva trovato il modo per bloccarmi in un vicolo senza uscita. “Bravo, vedo che sei ragionevole...e ora sparisci...ti auguro tutto il male del mondo”. E fu così che feci. Ancora una volta, vigliaccamente, sparii e lasciai che mio figlio, vostro fratello, uscisse per sempre dalla mia vita. Non li ho più rivisti. Non ho più saputo niente di loro. Ma non è passato giorno da allora che non abbia ripensato a quel viso di angelo, a cosa avrebbe fatto da grande, a quanto odio avrebbe provato per me. E spesso la notte continuo a sognarlo, mentre mi vomita addosso tutto il suo dolore e il suo disprezzo. Da allora ho vissuto la mia vita cercando di rimanere impermeabile nel modo più assoluto ad ogni subbuglio del mio corpo e della mia anima. Da allora tutto è stato “regolare”. Tutto è stato quello che appariva. Niente di più. I miei 60 anni sono stati placidi e lineari. Certo, il tarlo di Vittoria e del nostro bambino ha continuato a rosicchiarmi l'anima, giorno dopo giorno. Ci sono stati momenti in cui sono riuscito a domarlo, a farlo assopire e momenti invece in cui usciva di nuovo allo scoperto con tutta la sua ferocia. A volte ho pensato di andarlo a trovare, pur rischiando il suo disprezzo. Ma la paura ha sempre avuto il sopravvento. La paura e credo, anche l'egoismo. Ho ripensato tante volte alle mie esperienze, al senso che avevano avuto, al perché mi erano accadute. Ho cercato di vederci una trama sottile che le riuniva tutte, a partire dalla mia partenza dal mio paesino d'infanzia fino ad arrivare alla mia clinica e a Vittoria. Sapevo che ci doveva essere, credevo nella legge del karma che dava un senso a tutto, ma non sono mai riuscito a capirne la “chiave”. Sapeste quante volte avrei voluto parlare con qualcuno, sfogarmi, ma non potevo. Non potevo andare neppure dalla mia analista, mi vergognavo troppo. Provai allora il suo metodo da solo. Mi ritrovavo a parlare in solitudine davanti a un muro bianco. Avevo bisogno di dire a voce alta quello che avevo fatto, di sentirlo rimbombare nelle mie orecchie non solo nella mia testa. Questo, per qualche momento, mi faceva stare meglio. Mi ritrovavo a piangere di un pianto liberatorio e poi mi assopivo in pace. Ma per poco. Poi il tarlo ricominciava a lavorare. La maledizione di Vittoria, mi dicevo. In fondo era proprio così. Avevo ancora il mio mondo, intatto, incolume. Ma non riuscivo a sentir mici appieno dentro, non riuscivo a goderne. Lei e quel piccolo angelo erano sempre lì a fissarmi e a ricordarmi il male che avevo fatto. A loro, ma anche a me stesso.
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