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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Irene Salidu
Titolo: SU BISU Il sogno
Genere Romanzo
Lettori 44
SU BISU Il sogno
Orgosolo (NU).

La donna percorreva velocemente le viuzze del paese, si infilava nei vicoli stretti dove passavano le pecore una sola alla volta. Era vestita di nero, dalla testa ai piedi; aveva un'età indefinita e indefinibile. Nella casa di Giovanni avevano bisogno di lei: Giuseppina stava partorendo l'undicesimo figlio. Nessuno pensava che, dopo tanti figli, la donna potesse avere difficoltà nel parto, ma qualcosa non stava andando come sempre. La donna entrò attraverso il piccolo uscio di legno che dava direttamente sulla strada. Era stato lasciato accostato dal ragazzo che era andato a chiamarla e l'aveva preceduta. Attraversò la cucina, illuminata dal camino dove ardeva un grande fuoco. Davanti al camino, su delle seggioline in legno impagliato, sedevano Giovanni e due dei figli più grandi, uno dei quali era ancora ansimante e trafelato per la corsa fatta quando era stato mandato a chiedere il suo aiuto. I piccoli, probabilmente, erano stati mandati a letto, nei pagliericci delle stanze che solitamente stavano al primo piano, dove in genere dormivano insieme, per stare al caldo. Sicuramente, gli ultimi nati (il più piccolo aveva tre anni), erano stati affidati a parenti o vicine di casa. Due di loro, il tredicenne e il quindicenne, erano in montagna, a custodire l'ovile, al riparo in qualche “pinnetta”. Giovanni vide la donna e le fece un cenno, indicandole col capo la scaletta che portava al piano superiore. Non proferì parola, ma nel suo viso incartapecorito dal sole si leggevano ansia e preoccupazione, perché se fosse capitata qualcosa alla moglie, non avrebbe saputo come portare avanti la numerosa famiglia. C'erano troppi bambini piccoli, ancora, ai quali un padre, un uomo non poteva badare. Erano le donne, a “tirare su” i figli, rendere oro la farina, l'olio, il latte. Tutta l'economia familiare era sulle loro spalle. Lesta, la donna si accinse a percorrere la scala, al buio. Al piano di sotto gli uomini tirarono un sospiro di sollievo sentendo il passo veloce che percorreva il pavimento in legno e si fermava sulle loro teste: doveva andare tutto bene.
La donna entrò nella stanza da letto matrimoniale. Due delle figlie di Giuseppina, le più grandi, cercavano in qualche modo di aiutare e confortare la madre, in preda al travaglio già da diverse ore. Lo sguardo della donna andò al grande rosario in legno che stava appeso alla parete. Sospirò e sussurrò una preghiera, un'invocazione al cielo perché l'assistesse e una bestemmia al male, perché le stesse lontano.
Quel piccolo non trovava modo di vedere la luce. La donna cominciò a parlare al nascituro, con voce calma e allo stesso tempo decisa. Pose le mani sulla pancia di Giuseppina, per sentire la sua posizione, gli consigliò come muoversi dentro quel ventre che non lo conteneva più e accompagnò il tutto con quelli che sembravano semplici massaggi, ma che a lei servivano per aiutare il piccolo a trovare la giusta posizione per venire al mondo. Giuseppina stringeva i denti, spingeva quando sentiva le spinte interne, si fermava quando la donna alzava una mano e la pregava di attendere. Fu un parto non semplice, ma la donna sapeva cosa fare. Alla fine, dopo un'ultima spinta della partoriente, accompagnata da un urlo di liberazione, il piccolo vide la luce. Era una femmina. Eruppe in un pianto forte e vigoroso.
Dal piano di sotto si sentì quasi materialmente un sospiro di sollievo.
Si udì bussare alla piccola porta d'ingresso, che la donna entrando aveva chiuso alle sue spalle. Franziscu, uno dei figli, andò ad aprire e dall'uscio fece capolino la vicina di casa, tzia Antonia, la quale spinse Franziscu e con lo sguardo chiese a Giovanni il permesso di salire al piano superiore. Giovanni le indicò la scala, ma non si mosse dalla seggiolina. Quando una delle figlie scese per portare su dell'acqua calda, si scostò un poco, permettendole di pescare il liquido dal pentolone annerito dall'uso: precedentemente era stato riempito con l'acqua del pozzo e posto a scaldare nel treppiedi che si ergeva sulla fiamma. Al piano superiore, l'altra figlia apriva la grande cassapanca che fungeva da armadio e prendeva asciugamani e pezze di cotone, che sarebbero servite alla madre, allacciate ai fianchi con delle cinture di stoffa. La bambina fu presa in cura dalla donna, mentre tzia Antonia cercava di sistemare e cambiare la biancheria del letto.
Giuseppina era spossata, ma stava abbastanza bene. Non voleva stare a letto: se glielo avessero permesso, si sarebbe alzata e avrebbe ripulito tutto, ma sapeva che nessuna delle donne che aveva intorno glielo avrebbe concesso. Si acquietò solo quando le fu posta la bimba in braccio per la prima poppata. Guardò quegli occhi che sapevano vagamente di lei, ma erano di uno strano colore: non verdi, come quelli di Giovanni, né castano scurissimi come i suoi, ma neanche cerulei come quelli dei neonati. Avevano delle sfumature gialle, striate di verde. Anche la pelle e i capelli erano particolari. Giuseppina non ricordava nessun altro figlio con una massa di capelli così ricciuta... e la pelle non era grinzosa come quella dei suoi fratelli e sorelle appena nati, ma bianca e rosea, come se la fatica della nascita non l'avesse minimamente sfiorata.
Le venne in mente il nome, Bianca ma sapeva che ne avrebbe dovuto parlare con Giovanni. Sorrise, perché sapeva già che quello e non altro sarebbe stato il nome di quell'esserino che poppava avidamente il colostro.
La donna si accinse a lasciare la stanza. Giuseppina le disse: «Deus ti du paghiri» (Dio ti ripaghi).
Con un cenno del capo e facendo il segno della croce, la donna scese lungo le scale. Giovanni si alzò dalla seggiolina, con la quale fino a quel momento sembrava un tutt'uno. La fermò, e le disse di aspettare. Chiamò a gran voce Maria, la figlia più grande, che ancora si trovava al piano superiore. Maria arrivò trafelata: «Eite cheres, babbo?» (Cosa vuoi, papà?).
Il padre le disse qualcosa all'orecchio, Maria uscì in cortile e tornò con un paniere nel quale aveva messo sei uova e alcune mele, poi aprì la madia che si trovava in cucina e prese unu civraxiu, (un pane di farina di semola che si preparava in quantità utile alla famiglia per circa una settimana) che era avvolto in un panno bianco. Maria aprì il panno, mise il pane sul vecchio tavolo in legno e attese che Giovanni, con il suo coltello a serramanico, dal quale non si separava mai (sa resolza, s'arresoia, sa pattadese, secondo le zone dell'isola) lo tagliasse a metà. Prese il pane, lo avvolse e lo mise nel paniere, che porse con un sorriso di gratitudine alla donna.
«È una pizzinna. A chent'annos cun salude!» (È una bambina. A cent'anni, con salute!) E uscì da quella casa richiudendo la porta alle sue spalle.
Grazie al “tam tam” del paese, tutti sapevano che Giuseppina aveva partorito. La donna era orfana di entrambi i genitori ormai da anni. Se fosse stata in vita la madre, si sarebbe trasferita qualche giorno da lei, per darle modo di riprendersi, ma nel paese tutte le donne erano complici nei momenti di necessità. Giuseppina non fu lasciata sola, a casa sua si susseguivano le visite delle donne del paese, che aiutavano in ogni modo la donna e la sua famiglia. Giovanni poté riprendere le sue fatiche con il gregge, mentre i ragazzi e le figlie più grandi si occupavano dei terreni, del pollaio e degli animali da cortile che scorrazzavano nel fazzoletto di terra dietro la casa, nel quale si trovava anche su muntronaxiu, un angolo adibito all'espletamento delle funzioni corporali (nelle case signorili, c'era un locale chiuso con “su comudu”, un vaso alto che di comodo non aveva nulla, se non la privacy). Spesso i bambini avevano timore nell'usarlo, poiché le galline e gli altri animali da cortile si avvicinavano e sembravano minacciosi. Nacquero storielle divertenti e leggende, dall'esasperazione di questi timori e la reazione vera o presunta di bambini e animali.
Giuseppina era una donna forte e robusta, non impiegò tanto tempo a poter riprendere il suo tran tran quotidiano e dirigere la numerosa famiglia affinché ciascuno contribuisse alla sopravvivenza dell'intero nucleo familiare. Giovanni stava fuori casa tutto il giorno: usciva la mattina presto e rientrava all'imbrunire, ma c'erano dei periodi nei quali stava anche dei giorni fuori casa per potersi occupare del gregge. Sapeva di lasciare tutto nelle mani di una donna capace e forte.
Il nome della nuova arrivata fu deciso una sera davanti al camino. Giuseppina non dovette insistere, perché ormai i nomi dei parenti erano stati già onorati con i primi figli. Bianca aveva deciso, Bianca fu.
La sera, dopo una cena frugale, la famiglia si riuniva davanti al camino. Era il momento dei racconti del mondo agro pastorale, ricchi di spiriti, fantasmi e popoli misteriosi (“sos contos de foghile, is contusu de forredda”). Giovanni raccontava ciò che la sua mente immaginava nelle lunghe notti all'addiaccio, ed erano storie che raccontava a se stesso nella solitudine vissuta a contatto con la natura e i suoi prodigi. Davanti al camino, con l'oscurità alle spalle, i figli ascoltavano storie di fantasmi, Janas (piccoli esseri, fate che tessevano e filavano con materiali preziosi che condividevano solo con pochi esseri umani), Ammutadori (faceva addormentare i pastori durante le notti solitarie con le greggi da custodire), ma l'essere che li spaventava di più era s'Erchitu, un uomo che era stato trasformato in bue e annunciava le morti violente che ci sarebbero state entro tre giorni dalla sua apparizione. Quando s'Erchitu era il protagonista, i più piccoli davano sguardi fugaci alle spalle, per vedere se ci fosse qualcuno, mentre i più grandicelli li toccavano di nascosto per spaventarli e burlarsi di loro. La morte non era un buon argomento, per le notti buie, illuminate dalle fiamme di un camino che creavano ombre spaventose agli occhi dei bambini, ma era parte della vita, e della vita era l'unica cosa certa. Spesso i più piccoli avevano paura di raggiungere il piano superiore per andare a letto, e questo suscitava l'ilarità di Giovanni e dei figli più grandi. Era un modo per trascorrere qualche momento insieme, ma anche per esorcizzare gli spiriti e i fantasmi... e la morte, con i suoi rituali e le speranze di rinascita.
Irene Salidu
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