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Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Mimmo Piazzolla
Titolo: Sono Memorie di Ricordi Lontani
Genere Narrativa
Lettori 1063 5 6
Sono Memorie di Ricordi Lontani
Il nuovo quartiere, una tessera di un puzzle che si univa ad altre tessere di una città in espansione, prendeva vita a partire dal largo intitolato a Giovanni Bellini, detto il Giambellino, uno dei più celebri artisti del Rinascimento. Sì, proprio lui, il maestro dei colori delicati e delle Madonne dallo sguardo mistico, il cui nome ora faceva da sfondo a un'area popolata da povera gente, reduci di guerra e operai con le mani sporche di grasso. Forse, però, un nome più appropriato per quel luogo sarebbe stato “Nec plus ultra”, come la mitica iscrizione scolpita da Ercole sulle colonne a lui dedicate, o forse, con un tono più ironico e amaro, “Verso Inculandia”. Perché, diciamocelo, cosa c'entrava il Giambellino con quelle case popolari, quelle strade sterrate e quelle trattorie fumose dove si serviva vino che sembrava più aceto che nettare degli dei?

Era lì che terminavano le corse dei tram, e i nuovi abitanti del quartiere, spesso, si trovavano costretti a percorrere a piedi chilometri di strada sterrata e mal illuminata per raggiungere le loro case. Un cammino faticoso, simbolo di una ricostruzione lenta e faticosa, sia materiale che morale. Eppure, in quel tragitto, c'era già il germoglio di una nuova vita: le chiacchiere tra vicini, le risate dei bambini che correvano tra le pozzanghere, il profumo di minestra che usciva dalle finestre aperte delle trattorie.

Dopo qualche tempo, fu istituita una linea di autobus, composta da vecchie corriere traballanti soprannominate “Carioca”. Questi mezzi, sempre stracolmi di gente, affrontavano l'ultimo tratto della via, una strada scarsamente illuminata, costeggiata da pozzanghere e sassi. Da un lato, si allineavano caseggiati di edilizia popolare, trattorie casalinghe e bar affollati, luoghi di ritrovo dove il fumo delle sigarette si mescolava all'odore del vino sfuso e alle animate discussioni sportive. Dall'altro lato, invece, si stendevano prati incolti, interrotti da piccole fabbriche, depositi e, tra queste, le mitiche officine elettro-ferroviarie Tallero, che rappresentarono la prima occupazione lavorativa di mio padre dopo il rientro dalla prigionia in Africa.

Il nuovo capolinea degli autobus arrivava alla “grande piazza” della stazione, un luogo, teatro di mille avvenimenti nel tempo: incendi, sparatorie, le umiliazioni pubbliche delle donne accusate di essere amiche dei tedeschi, con le teste rasate come monito, ma anche bische a cielo aperto e spaccio di droga. Era un crocevia di storie, di sofferenze e di speranze. Da quella stessa stazione, un tempo, partivano i binari che consentivano ai treni di trasportare i feriti di guerra fino all'ospedale militare. Si raccontava di vagoni affollati, impregnati dell'odore di carne purulenta e dei gemiti di dolore dei soldati.

Quei binari, un tempo vitali per il trasporto dei feriti, furono dismessi dopo la guerra. Al loro posto ora passavano carri armati, che catturavano il nostro sguardo di giovani ragazzi, ignari e distanti dal recente passato. Eravamo elettrizzati, sognavamo di salire su quei mezzi roboanti, i cui cingoli incidevano sull'asfalto un altro tipo di ferita, indelebile.

Quando vedevamo il carrista affacciato fuori dalla botola del carro armato, immaginavamo di essere al suo posto, padroni di quella macchina possente, senza pensare al peso reale che portava con sé. Quei carri proseguivano verso campi d'addestramento, destinati a esercitazioni dai nomi altisonanti: Operazione Vittoria Imperitura, Esercitazione Scudo Invincibile, Manovra Tuono d'Acciaio... chissà? Forse erano già i segnali di una nuova “nazione armata”, pronta a un'altra disfatta, mentre noi, inconsapevoli, cercavamo solo di vivere un presente che faticava a liberarsi dalle ombre del passato.
Finalmente, le corse dei tram furono estese fino alla "Grande Piazza", che assunse il nome di "Piazza Tirana", in sostituzione del precedente "Piazza Albania". Questo cambio di denominazione, forse, non fu casuale: un modo per lasciarsi alle spalle il ricordo del fallimento dell'occupazione fascista e voltare pagina. La piazza divenne così il nuovo capolinea per le linee 8 e 28, punto di arrivo e di partenza per una folla variegata di passeggeri.
Ogni volta che i tram giungevano a destinazione, si ripeteva una piccola routine: il manovratore e il bigliettaio scendevano, si concedevano una breve pausa per accendersi una sigaretta, scambiare due chiacchiere e, magari, "cambiare l'acqua alle olive" nel vespasiano lì vicino. Poi, prima di riprendere il viaggio, si lavavano le mani al famoso "drago verde", una fontana pubblica che, con il suo aspetto un po' antiquato e il getto d'acqua continuo e rumoroso, era diventata un punto di riferimento per molti. Ma non si limitavano a lavarsi le mani. Spesso, soprattutto nelle giornate più calde, il manovratore e il bigliettaio bevevano dalla fontana, tappando con il dito la bocca del drago verde Quel gesto semplice faceva sì che l'acqua, invece di zampillare dalla bocca del drago, fuoriuscisse dalla cresta, creando un getto fresco e dissetante
Era un momento di pausa, quasi rituale, che scandiva il ritmo della giornata, un attimo di respiro prima di ripartire lungo i binari della città, tra il viavai della gente e il rumore delle ruote sui binari. E così facevano tutti: passeggeri occasionali, bambini curiosi, anziani del quartiere. Chiunque passasse di lì, soprattutto d'estate, si fermava a bere dal drago
E così, tra i bar affollati, le trattorie fumose, le officine rumorose e i prati incolti, il quartiere prendeva forma, lentamente, come un mosaico di storie individuali che si intrecciavano in un'Italia ancora alla ricerca di se stessa

Brutti, sporchi e furbacchioni
Oltre la Piazza, il rione, regno di noi ragazzi di borgata, si estendeva fino all'estrema periferia, dove la città si sfilacciava tra campi incolti, marcite e vecchie rogge.
Tra ruderi fatiscenti e orti improvvisati, si aggiravano personaggi singolari, uomini dall'aspetto trasandato, la barba ispida e gli abiti impolverati, che parevano usciti da un film di Ettore Scola, brutti, sporchi e cattivi, e pronti a difendere il loro territorio con uno sguardo truce che valeva quanto un randello.
Uno di loro spiccava sugli altri. Viveva con la sua numerosa famiglia in una baracca rabberciata con lamiere arrugginite e assi di legno marcio, un'abitazione precaria che sembrava raccontare miseria. Eppure, dietro quell'apparente povertà, si celava un fiuto per gli affari degno di un mercante d'altri tempi. Era il proprietario di ben due negozi, dove si potevano acquistare conigli, pollame, uova e verdure fresche, tutto rigorosamente a chilometro zero... e lo stesso si poteva dire per l'igiene.
Quando pesava la merce, il piatto della bilancia sembrava animato da una misteriosa inclinazione, e il peso finiva sempre per giocare a suo favore. Era un maestro nell'arte del sotterfugio, capace di infilare un pollice strategico sulla bilancia con una naturalezza disarmante, mentre con la parlantina fluida distraeva il cliente con storie di campagna e aneddoti improbabili. I suoi affari prosperavano proprio grazie a questo misto di astuzia e faccia tosta, dietro il sorriso sdentato e l'aria bonaria, c'era sempre un conto che tornava solo per lui, e forse, nel suo piccolo, era lui il vero signore del rione.

Il Mare del Giambellino

Stradine sassose, irte di rovi e polverose, si inerpicavano fino ai binari della ferrovia, separati dal mondo “di là” da una staccionata di cemento sbrecciata e malconcia. I più temerari, quasi orgogliosi delle cicatrici che quelle laceranti armature arrugginite lasciavano sulle loro gambe, vi si infilavano attraverso, come se quei segni fossero medaglie di un'avventura proibita. Erano croci di guerra, testimonianze silenziose di chi osava sfidare il limite, tenendo l'orecchio teso al fischio lontano del treno in arrivo dalla stazione vicina di Porta Genova.

I vecchi del quartiere lo chiamavano “navili de gagian”, un nome che sapeva di storia e di fatica, ma per noi ragazzi era solo, scherzosamente, “El Mar del Giambelin”. Oltre la staccionata, si apriva il regno del Naviglio Grande, il nostro mondo estivo. Quel nome, che evocava l'immensità del mare, per alcuni ancora un luogo sconosciuto, tanto che c'era chi credeva che il Naviglio arrivasse fino al mare di Genova. Sapevamo bene, però, che non era altro che un canale navigabile, una via d'acqua che dal Ticino si snodava sinuosa fino alla Darsena di Porta Ticinese.
Nell'età medievale, i suoi barconi trasportavano il prezioso marmo di Candoglia, destinato alla costruzione del Duomo, mentre negli anni più recenti solcavano le sue acque carichi di sabbia per l'edilizia. Ma per noi ragazzi, il Naviglio era il nostro mare, il nostro oceano in miniatura. Le sue acque, talvolta limacciose e opache, diventavano il teatro di imprese epiche.
Gli abiti abbandonati nei cespugli, i corpi nudi che riempivano la riva, le risate e le grida che si mescolavano al rumore dell'acqua: tutto questo trasformava il Naviglio in un luogo magico. Ci sfidavamo a chi dimostrava più coraggio, a chi riusciva a saltare in corsa sui barconi di sabbia di passaggio, sfiorando per un attimo la vita dei barcaioli, che ci maledicevano con parole che facevamo finta di non sentire. “Piscinin, ve savet minga nuà!” urlavano, agitando i remi come fossero armi. E noi, agili come gatti, ridevamo e scappavamo, lasciandoci alle spalle i loro rimproveri e il suono del Naviglio, il nostro “Mar del Giambelin”.
Mimmo Piazzolla
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