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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Enzo Mariotti
Titolo: L'uomo elegante e altre storie
Genere Racconti
Lettori 164
L'uomo elegante e altre storie
La follia delle cose normali.


Il chitarrista.


Il palco era piccolo.
Tanto piccolo da dover stare attento ad ogni passo, per non inciampare nei cavi o calciare l'asta del microfono.
Ma a lui non serviva spazio. Lui aveva la chitarra.
Le dita scorrevano sulle corde come se fossero nate per quello, e forse lo erano. Ogni nota vibrava nell'aria immobile del locale. Anche chi era entrato per sbaglio, per una birra veloce o per sfuggire alla pioggia, non riusciva più ad uscire.
C'era qualcosa in quella musica. Non era virtuosismo, non era velocità. Era ferita, fango, polvere, salite, pugni presi e restituiti.
Era verità.
L'uomo sul palco aveva i lunghi capelli brizzolati legati in una coda disordinata, la barba folta, una maglietta nera e lo sguardo stanco. Aveva qualcosa di rotto dentro -lo si capiva- ma quella sera, per la prima volta da tempo, sembrava intero. Non sorrideva. Ma la chitarra si.
Nessun annuncio, nessun proclama. Solo canzoni. Suonate così dannatamente bene che sembrava stesse raccontando una storia. Una storia che pochi conoscevano ma che tutti, per un momento, sentivano propria.
Un tavolo in fondo alla sala si riempì. Poi un altro. Qualcuno filmò venti secondi e li postò. E mentre il mondo fuori tirava avanti distratto, lì dentro stava succedendo qualcosa. Era il ritorno di un uomo che non era mai andato via.
Solo che nessuno lo aveva mai davvero ascoltato.

* * *

Si chiamava Francesco. Negli anni ‘90 aveva fatto parlare di sé, nei locali giusti. Un chitarrista dalle dita veloci ma dal cuore lento, uno che si prendeva il tempo per far piangere una nota, e la faceva piangere davvero. I discografici lo ascoltavano rapiti, poi gli chiedevano se poteva modernizzarsi. Aggiungere un beat elettronico, un ritornello facile, un assolo patinato che graffiasse appena la superficie.
Lui rispondeva sempre allo stesso modo. Un'occhiata. Un sorriso. Una scrollata di spalle. E se ne andava.
Aveva scritto canzoni per altri, alcune erano diventate successi. Con i diritti di alcune di queste ci campava, oltre che con lezioni a ragazzini, che dopo cinque lezioni pretendevano di replicare gli assoli di Eddie Van Halen.
Su altre canzoni, canzoni di successo, non c'era nemmeno il suo nome sopra. A volte per scelta, a volte perché gli avevano tolto anche quello.
Poi era arrivata quella canzone.
Una ballata intensa, ruvida come carta vetrata e dolce come il vino d'inverno. L'aveva scritta in una notte d'insonnia, con il cuore che gli batteva con un tamburo rotto.
Aveva pensato di tenerla per sé. Invece, l'aveva regalata ad un ragazzo di belle speranze, bravo ma vuoto, uno che gli ricordava sé stesso, ma senza tutto quello che pesa. E che fa male.
Il brano esplose. Passò in radio, in TV, ovunque. Ed il ragazzo di belle speranze si prese tutto. Applausi. Interviste. Premi.

* * *

La TV era accesa solo per compagnia, un brusio indistinto di sottofondo che Francesco non ascoltava mai veramente. Ma quella sera, la voce lo trafisse.
L'ho scritta tutta d'un fiato, con l'anima in mano. È nata in una notte d'insonnia, come un urlo dal cuore.
Il ragazzo era lì, trionfante, nel salotto di un talk show patinato. Camicia sgargiante, denti sbiancati, un sorriso da testimonial. Francesco guardò lo schermo della TV. Non con rabbia, non con gelosia.
Con nausea.
Le parole erano le sue. L'aneddoto anche. Solo che quella non era la sua voce.
Non aveva mai preteso soldi. Mai voluto fama. Ma una riga nei titoli, un l'ho scritta insieme a... Un nome.
Solo silenzio. Come se non fosse mai esistito.
Spense la TV e andò verso il suo angolo. Aprì la custodia della Gibson, la accarezzò con lo sguardo. Ma non la prese in mano.
Poi richiuse la custodia.

* * *

Qualche giorno dopo, al mattino. Francesco prendeva il primo caffè della giornata appoggiato al bancone. La porta si aprì ed entrò Mauro, il batterista della sua vecchia band, decenni prima. Adesso era un turnista per studi importanti. Aveva il viso rilassato e il portamento sicuro. Aveva vinto, in un certo senso. Gli chiese come stava, come gli stava andando la vita. Francesco si limitò a una scrollata di spalle.
“Guarda che nel mio studio ci sarebbe posto per uno come te,” disse Mauro. “Seriamente. Ti danno gli spartiti, registri la parte, prendi il gettone e torni a casa. Due, tre volte a settimana e ci campi. Basta che ti trasformi in un...riproduttore. Preciso, asettico, pulito.”
Francesco lo guardò negli occhi a lungo. Poi sorrise. Triste, ma sereno. “Io non ho mai saputo suonare così.”
“Dai, non fare il purista...”
“No, davvero. Quando suono, io devo raccontare qualcosa. E se non posso farlo...non ho più niente da dire.”
“Allora che farai?”
“Niente. Non suonerò più. Forse è giusto così.”
Salutò, pagò il caffè e uscì. E quella sera, per la prima volta da trent'anni, non toccò la chitarra. Nemmeno per accordarla. Nemmeno per sentirne il legno.

* * *

Francesco non si era mai rintanato. Non era il tipo da pantofole e maledizioni agli dei della musica, o da whisky a stomaco vuoto con lo sguardo perso. Aveva solo preso atto che il tempo cambia. Che la gente dimentica. Che a volte la musica resta, ma il musicista svanisce.
Aveva amici. Pochi, ma veri. E con loro passava del tempo, ogni volta che poteva. E di tempo adesso ne aveva, dopo che si era preso una pausa dalle lezioni di chitarra. A tempo indeterminato.
C'era Iacopo, ormai cantante affermato, ma che non aveva mai perso un'occasione per dividere con lui i palchi più scalcinati, come agli inizi.
Federico, giovane e dotato allievo prima, amico sincero poi.
Anna, che aveva smesso di cantare per fare l'insegnante, ma ancora ricordava le loro prime prove in garage.
Chiara, che era l'unica che riusciva a farlo uscire di casa anche nei suoi momenti da orso nella caverna.
E Simone. Ex fonico, ex tecnico luci, ex cantante, ex un sacco di altre cose. Adesso gestiva un piccolo locale alla periferia della città. Uno di quei posti dove l'intonaco cade, ma la gente ascolta davvero. Ogni tanto lo invitava a cena, nel giorno di chiusura del locale. Pasta al forno, vino, chiacchiere lente.
Francesco rideva, scherzava, raccontava. Si sentiva anche bene, a tratti. Ma non toccava una chitarra.
Non più.

* * *

Una sera di inizio Marzo. La carezza della pioggia sui vetri, un blues sofferto di Stevie Ray Vaughan in sottofondo. Simone posò la forchetta e lo guardò fisso.
“Tu non sei uno che smette. Lo sai, vero?”
“Smetto benissimo, invece. Ho talento anche in quello.”
“No. Tu hai fatto una scelta. Ma non è la tua strada. Non tutta, almeno.”
Francesco sorrise, amaro. “La mia strada ha troppe buche.”
“Senti,” disse Simone. “Giovedì avevo una serata qui al locale. Un cantautore impegnato, come gli piace definirsi. Roba da spararsi nelle palle dopo quattro accordi, ma si porta dietro diversa gente. Insomma, quel coglione mi ha dato buca.”
“Mi dispiace per te,” rispose Francesco. “Ma io cosa c'entro in tutto questo?”
Simone rimase in silenzio per qualche secondo. “È solo che...mi piacerebbe rivederti lì sopra. Una volta. Per dire che non hai mollato. Non ancora.”
Silenzio. Poi, Francesco parlò. “Non tocco una chitarra da mesi. E non ho scalette.”
“Non importa. Porta te stesso. E la Gibson. Nessuno ti chiederà altro.”
“E se nessuno ascolta?”
“Allora suonerai solo per me. E sarà abbastanza.”
Francesco abbassò lo sguardo. Poi lo rialzò. “Va bene,” disse con un sospiro. “Una sera. Una sola.”
“Una sola,” ripeté Simone.

* * *

La custodia era lì, dove l'aveva lasciata. In fondo allo sgabuzzino, coperta da un vecchio impermeabile. La aprì con pudore, con timore, come si apre un diario dimenticato. La prese in mano. Era leggera e familiare, come se non fosse passato un solo giorno.
La stanchezza sulle spalle, il disincanto, la rabbia. Tutto svaniva quando poggiava le dita sul manico.
Provò un accordo. E poi suonò. Non per provare. Non per prepararsi. Suonò perché doveva. Perché quella chitarra non era solo uno strumento; era una parte di sé. E quella parte, per quanto nascosta, non aveva mai smesso di vivere.
Non erano passaggi tecnici, non erano virtuosismi. Erano ricordi. Un riff che nasceva da solo. Un arpeggio lasciato a metà anni prima. Un tema malinconico, suonato mezza volta e mai registrato. Nessuna lacrima, nessun sorriso. Solo presenza.
Poi, di nuovo il silenzio. Francesco guardò la chitarra. La ripose con cura.
Quella sera avrebbe suonato. Ma stavolta, sapeva perché.

* * *

Il cielo sopra il locale era color piombo. L'insegna del locale di Simone a metà fra l'ironico e il disperato: Cose buone e rumori veri.
Francesco entrò dal retro, come aveva sempre fatto. Pochi tavoli. Qualche coppia. Due ragazzi con l'aria da critici musicali frustrati.
Ad un tavolo in penombra, quattro persone.
Loro, gli amici di sempre.
Simone gli fece un cenno. Francesco salì sul palco. Niente fronzoli. Solo la chitarra, un microfono, le sue dita e la sua pelle. Le prime note uscirono incerte. Poi arrivarono le altre. E fu come respirare di nuovo.
Non c'era scaletta. C'erano storie da raccontare. Vecchie ballate, blues ruvidi. Un pezzo strumentale senza titolo. Lento, denso, con un'intimità che non lasciava scampo.
La gente smise di parlare. Qualcuno chiamò un amico. Un altro iniziò a registrare. Fuori, qualcuno sentì la musica e aprì la porta.
E quella porta non si sarebbe più chiusa.

* * *

Quella sera finì in silenzio. Nessun applauso fragoroso, nessuna ovazione. Anna e Chiara sorridevano con gli occhi lucidi, Federico portò una mano alla fronte in un abbozzo di saluto militare, Iacopo lo guardò e annuì lentamente.
Un uomo si alzò dal tavolo e volle stringergli la mano. Un altro lasciò un boccale pieno di birra sul bordo del palco.
Il giorno dopo, qualcuno pubblicò su Youtube un frammento di un minuto e mezzo. Una canzone che Francesco non aveva mai inciso, né scritto davvero. Solo suonata.
Quattro giorni dopo, lo chiamarono dal Fusto di rovere: avevano visto il video, lo volevano per una serata. Poi fu la volta di La stanza di vinile, poi Blu notte, e quel locale all'angolo con le tende rosse e il bancone scheggiato. E molti altri ancora.
Non era una tournée, nessun manager. Solo Francesco, la sua chitarra e il passaparola. Suonava non meno di quattro volte a settimana. A volte davanti a cento persone, a volte davanti a quindici. Una sera, soltanto uno. Ma lui suonò lo stesso. Due ore. Alla fine, quell'unico spettatore si alzò e si avvicinò al palco. Era un uomo sulla sessantina, con un elegante vestito nero e il volto scavato da una tristezza profonda. Ma sorrideva. “Grazie,” disse tendendo la mano. “Oggi c'è stato il funerale di mia moglie. Stavo girando senza meta, quando ho sentito la musica e sono entrato. Tu e la tua chitarra...mi avete risollevato l'anima, almeno per due ore.”
Francesco gli strinse la mano. Non disse nulla. Non ce n'era bisogno.
Guardando l'uomo che usciva dal locale, Francesco capì. Aveva ritrovato la musica. Non la gloria, non le copertine, non le luci. Solo la musica. E tanto bastava.

* * *

Il telefono squillò nel tardo pomeriggio, mentre Francesco era seduto in terrazza, fumando una sigaretta e godendosi la fresca brezza primaverile. Numero sconosciuto.
“Francesco,” esordì la voce all'altro capo della linea. “Che piacere sentirti. Sono Marco, ti ricordi? Il manager di...”
“Si. Mi ricordo, Marco.”
“Dunque...le voci corrono. Pare che non ci sia locale in città che non farebbe carte false per averti almeno una sera. Sono felice per te Francesco, davvero. Del resto, un chitarrista come te...chi non lo vorrebbe?”
“Non sei mai stato il tipo da telefonate senza uno scopo, Marco. Perché mi hai chiamato?”
L'altro rimase in silenzio per qualche secondo prima di rispondere. “Ecco...abbiamo questo concerto fra due giorni. Arena sold out, più di quindicimila biglietti venduti, stampa internazionale, streaming...una cosa grossa.”
Francesco rimase in silenzio.
“Il fatto è,” proseguì Marco, “che il nostro chitarrista si è rotto un braccio. Cadendo dalla bicicletta, Cristo santo. Riesci a crederlo?” Una pausa. “Francesco? Sei sempre lì?”
“Sono qui.”
“Quindi, ho pensato...chi meglio di te per sostituirlo? Voglio dire, chi vuole uno shredder che non ha ancora imparato a farsi la barba quando può avere te? C'è bisogno di feeling, di anima, di cuore...”
Francesco tacque ancora.
“Il ragazzo...beh, te lo dico con sincerità, non era entusiasta all'idea. Sai com'è, è giovane, sensibile. Ma ho insistito. E l'ho convinto che eri la scelta migliore.”
“La scelta migliore,” ripeté Francesco, più a sé stesso che all'altro.
“Quindi, io pensavo...magari ci vediamo, ne parliamo. Una collaborazione una tantum. Un gesto di stile, diciamo. Potrebbe tornare utile ad entrambi. Naturalmente, qualche piccolo...dettaglio del passato può restare dov'è. Voglio dire, a chi interessa rivangare cose vecchie, giusto? E poi, per un'esibizione così importante...potremmo parlare di una quota, una percentuale. Una cifra interessante, insomma.”
Francesco chiuse gli occhi. Il messaggio era fin troppo chiaro. Anche se non aveva mai depositato quel pezzo, temevano che avesse qualche prova che lui ne era l'autore. Certo, il pezzo lo aveva regalato spontaneamente e sarebbe stato difficile provare il contrario. Ma per il ragazzo e tutto il suo entourage, sarebbe stata comunque una pessima pubblicità.
“Francesco?”
“Non voglio niente di più della paga standard,” rispose. “Nulla da firmare, nulla da dire, nulla da vendere. Ma quel pezzo...lo suonerò come voglio io. Questa è la mia condizione.”
“Va benissimo Francesco,” rispose l'altro. Il sollievo nella sua voce era quasi palpabile. “Un vero signore, come sempre. Senti, visto il poco tempo a disposizione, ci sarà tempo solo per una prova, domani sera. Il ragazzo non ci sarà, non partecipa mai all'ultima prova. Sai, scaramanzia, preservare la voce, stronzate simili.”
“mandami la posizione della sala prove su Whatsapp,” rispose Francesco. “Ti detto la mia mail, spediscimi gli spartiti dei pezzi. Non di tutti. Sai cosa voglio dire.”
Enzo Mariotti
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